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Sguardi brevi. Francesco Mezzina, fotografia come poesia
15 giugno 2005

“A volte ho la sensazione che una proiezione di me stesso mi preceda, ansiosa di scoprire il prossimo passaggio, è allora che più esito, quando devo raggiungerla. Perché aspetto qualcosa ma non so bene cosa. Quello che vedo sono grandi spazi. Non li riconosco... nel frattempo sguardi brevi”. Cosa, meglio delle parole di Francesco Mezzina stesso, potrebbe commentare la misteriosa natura delle creazioni esposte presso il Duomo di Molfetta, dal 21 al 28 maggio, in una suggestiva personale dal titolo “Sguardi brevi”? Un curriculum ricco di esperienze ad alto livello quello di questo artista molfettese, prezioso collaboratore di “Quindici” e autore di tante copertine della nostra rivista, abituato a focalizzare la sua attenzione sul paesaggio pugliese e lucano, con particolare interesse per la realtà della nostra città (mi tornano in mente certe bellissime foto della Maddalena per la guida “Aria di Pasqua” o le immagini del cd rom “Molfetta in ipermedia), ma anche verso il paesaggio urbano del capoluogo, come in “Architetture a Bari nel ventennio fascista”. Le foto di “Sguardi brevi” sono state realizzate “tra la fine del 2004 e i primi giorni di maggio 2005”. 'Ferro' del mestiere la Lomo lca., una macchinetta russa, vessillifera di una 'fotografia imperfetta', perché “la luce è sempre insolita, autonoma ed inaspettata”, e, forse in virtù della congenita imperfezione, tanto più aderente ai moti della vita, che “non si concretizza in pose perfette”. La ricerca di Mezzina si orienta verso angoli niente affatto riposti, talvolta del tutto banali, di Molfetta e dintorni e, con l'ausilio della LOMO, gioca a presentarceli in una prospettiva del tutto diversa, con effetto straniante. Così, un luogo a noi familiare e allo stesso tempo estraneo, perché in condizioni normali non cattura la nostra attenzione, si colora di sfumature surreali, a tratti magiche. In “Sguardi brevi” colpisce l'assenza dell'uomo in quanto corporeità. L'obiettivo si volge verso ambienti solitari. Cattura lo svettare di un cipresso verso il cielo plumbeo, dove le nubi fanno da grigio pendant alla solitudine della natura. A volte coglie, in attimi di silenzio e deserto, spazi che usualmente sono crocevia delle genti più disparate. È il caso di un distributore di benzina nella notte desolata, o di una vetrina popolata solo di statue che, nella quiete dalle attività del giorno, paiono antiche Grazie a tutela di un sottobosco di esistenze all'uomo ignote. Significativo è il giardino di una villetta, uno come tanti, con alcuni dei sette nani in primo piano e, sullo sfondo, malinconico segno di un'avvenuta riunione familiare, tavolinetti e sedie in legno. La LOMO si diverte con luci e ombre; carica di contorni indefiniti l'anonima sagoma di un lampione in città, si sofferma sulla pavimentazione stradale. Sull'asfalto doppiato in velocità, in una suggestiva istantanea on the road. O rivela in lontananza edifici che non può riscattare dallo squallore decadente. Tracce dell'uomo, nonostante l'apparente assenza, si rivelano ovunque. Nei sottopassi, si fanno graffito, a tratti violento a tratti minimalista. Si concretano nelle costruzioni, frutto del suo intervento sulla natura. Nelle sculture, che a volte con le creazioni naturali sembrano entrare, curiosamente, in simbiosi. Come in una figura femminile (una Driade?), i cui capelli sembrano un tutt'uno col tronco d'albero da cui pare scaturire per incanto. Chi lo direbbe che tante volte le sarò passato accanto. Senza vederla. Gianni Antonio Palumbo gianni.palumbo@quindici-molfetta.it Raccontare un sogno Il sogno, dunque. L'asciuttezza, la scarnezza senza fronzoli della semplicità. Lasciando al naturale respiro delle cose tutta la potenzialità (poco) nascosta dell'essenziale. Una ricerca lucida, pulita, netta, come far passare al colino l'intruglio dei pensieri per farne uscire solo il fluido, chiaro, ma intenso di essenza. L'onirico, quindi. Le immagini di sempre, semplicissime, ma pervase da luci "inaspettate", "insolite", come il sogno sa fare. Come la Lomo sa fare. Come i desideri, che i sogni precedono. E' un concentrarsi sulle cose facili, semplici, sulle immagini quotidiane, fuori da ogni complicato intrigo di intricati cruciverba mentali. E un lasciarsi andare all'inconscio cosciente (e respirare con la pancia), ai limiti della percezione sei sensi. Come se i sensi precedessero noi stessi, proiettandoci nella visione, anticipandola ("la proiezione di me stesso mi precede"). A dar spazio a visioni "autonome", "imperfette". Come l'inconscio sa fare. Come la Lomo sa fare. Tutto con occhi così corti, che non guardano fuori. Come sguardi interni. Brevi, allora. Domi Bufi
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