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Rugiada Racconto dell a Settimana Santa
15 aprile 2014

Sono miriadi di garofani rossi a cingere le statue dei Misteri. È la notte di mercoledì e da poco è terminato l’Ufficio delle Tenebre. Le porte della chiesa si sono già richiuse, ho sentito serrarle a doppia mandata. Poca luce. L’aria è densa di odori, primo fra tutti quello dell’incenso or ora effuso, poi quello intenso della gente che era qui; e, in lontananza, lieve ma distinto, quello del rosso tappeto di fiori. Aspetto un tempo che non so definire: un’ora, forse due. I rumori all’esterno sono scemati e resta solo il traffico della tarda serata. Ma ancora non è prudente venir fuori. Mi addormento, mi risveglio che è notte fonda. Scendo lentamente dalla cantoria, evitando di far risuonare la scala di ferro. Sono qui per pregare a modo mio, per provare insieme ottenebrazione e illuminazione, smarrimento e conforto, sofferenza e pace. Voglio restare solo con il mistero dei Misteri. Avanzo cauto mentre gli occhi si abituano pian piano all’oscurità. Sono a pochi passi dal sepolcro, come lo chiamano. Poi un rumore: non sono solo. – Chi è là? – chiedo a voce bassa, come per invocare solidarietà nel compiere un atto non consentito. Una figura proveniente dalla sagrestia esce lentamente dall’ombra e si avvicina. Ne distinguo a malapena i lineamenti finché non entra in un piccolo campo di luce. Nessuno sa il nome dell’altro, però ci siamo visti tante volte proprio là. Ci presentiamo. Credo sia un confratello. Né io né lui abbiamo il coraggio, o forse l’indiscrezione, di chiedere all’altro il perché della scelta di passare la notte in maniera così inusuale e rischiosa. Rompo il silenzio confessando le mie intenzioni: non devono sembrargli del tutto peregrine, giacché sul suo viso la linea continua della bocca chiusa gli si inarca in un debole sorriso. Mi siedo in prima fila, a margine del corridoio. Il mio compagno di veglia prende posto dal lato opposto, come a segnare una non-lontananza. Da quando si è presentato non ha più parlato, serrando forte dentro di sé quello che dev’essere un segreto non riferibile. Non prego, mi interrogo su di lui. Il tempo deve sembrargli interminato. Sembra nervoso, non posso sapere cosa si agiti nella sua mente ma capisco di essere un ostacolo per lui. Devo aver colto nel segno perché d’improvviso rompe il silenzio: - Domani mi ammazzo. Sollevo la testa china e mi volto lentamente, abbandonando la posa giunta delle mani. Non so se è la notizia o l’aver tenuto le mani a lungo intrecciate, ma le palme sono fredde e sudate. Le asciugo strofinandole sui pantaloni. Guardo il mio vicino, trema e stringe i denti. Sono io l’ostacolo, ora è certo. Si alza, prende posto più vicino a me, comincia a raccontare. Le sue parole fluiscono inarrestabili come dopo aver infranto gli argini di una diga che ha retto finché ha potuto. Finisce il racconto e si calma. – Aspetto un segno – conclude. Non ho parole utili, faccio segno di sì con la testa. Gli sistemo il cappotto che, appoggiato sulle spalle, gli è scivolato giù dal lato sinistro. Rivolgo lo sguardo alle sacre immagini, gli occhi mi si piantano sulla ferita del costato del Cristo morto. Penso a quanto sanguini il costato dell’uomo che ho accanto. Non dice più nulla e si distende sulla fila di sedie. Il cappotto gli cade ancora, lo invito ad alzarsi e con quello lo copro. Si addormenta, io no. La notte si avvia al suo declino e l’esperienza che volevo vivere si è tramutata in tutt’altra. Resisto ancora un poco, prendo sonno da seduto. Mi sveglia un brivido di freddo. È l’alba. Gli aromi della sera prima sono svaniti per lasciare al profumo dei garofani il trionfo nell’aria gelida. Mi sfrego le mani, poi le braccia. Si sveglia anche il confratello, ci salutiamo. Si mette a sedere indossando finalmente il cappotto. Simultaneamente rivolgiamo gli occhi al sepolcro ed è lui ad accorgersene per primo: – Il segno. C’è la rugiada sui fiori. Non credo a ciò che vedo. Non è possibile, ma su ampie zone del prato vermiglio ci sono minuscole goccioline. Mi accorgo che la rugiada copre i garofani più vicini al mio compagno. Si leva in piedi, due passi ed è inginocchiato fra la statua di Gesù caricato del legno della croce e i piedi del Cristo morto. Sono le due ultime tappe del suo cammino, interpreto ricordando il racconto della notte, e l’uomo ne è nel mezzo, incerto fra il dolore del suo peso, o il peso del suo dolore, e il suo destino prossimo. Lo vedo accarezzare i garofani. Si guarda la mano imperlata di rugiada. Mi chiama, mi invita a fare lo stesso. Passo anch’io la mano sui fiori ma, spaventato, faccio un balzo indietro. Guardo incredulo la mia mano, la sua. Non è rugiada: è sangue. Ci guardiamo: lui rasserenato, io con il cuore in gola, poi facciamo lo stesso gesto. Tamponiamo le palme con un fazzolettino, lo ripieghiamo, lo baciamo, lo mettiamo in tasca. In quel mentre sentiamo la serratura girare: è tardi per fuggire. Silenziosi ci avviamo verso l’uscita sotto gli occhi stupiti di chi ha aperto. – È ora di un buon caffè – mi dice il confratello nella prima luce del mattino. 

Autore: Cosimo Giovine
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