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Riflessioni sulla straordinaria partecipazione a Molfetta al corteo per la Palestina
27 luglio 2025

MOLFETTA - Il corteo per la pace di giovedì 24 luglio, a Molfetta, è stato un momento di straordinaria partecipazione. Circa un migliaio di persone, che hanno sfilato contro il genocidio a Gaza, per la pace e per la libertà dei popoli, a partire da quello palestinese, e contro il riarmo. La mobilitazione entusiasta di tante persone è andata in controtendenza rispetto ad un certo ripiegamento nel privato, che sembrava stesse prevalendo in città, negli ultimi tempi. Era da tanto tempo che non si vedeva tanta gente in piazza: altre iniziative recenti, pur provenendo da attori eterogenei, che erano state organizzate in un’ottica di condivisione pubblica, avevano avuto risposte ben diverse. È forse per questo che in pochi si aspettavano un successo del genere, oltre ogni aspettativa.

L’iniziativa, convocata dal Coordinamento Molfetta per la Palestina, ha visto la partecipazione di tante realtà del mondo laico e del mondo cattolico, non solo di Molfetta. Tra le persone che sono intervenute, Yousef Salman, medico palestinese e delegato per la Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia; Michela Arricale, co-presidente del Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia; e Mons. Giovanni Ricchiuti, Presidente nazionale di Pax Christi.

I contenuti sono stati chiari: al centro delle rivendicazioni, la fine del massacro perpetrato da Israele, la necessità di garantire al popolo palestinese la possibilità di vivere un’esistenza libera e dignitosa, per cui è fondamentale l’impegno della comunità internazionale e delle istituzioni, a partire da quelle nazionali, che ancora si rapportano alla questione con troppa ambiguità, quando non di complicità con gli autori del massacro.

Il successo dell’iniziativa ci consegna qualche elemento politico di carattere generale su cui riflettere. L’evento è nato e si è sviluppato a partire dalla convergenza di due “anime”, che forse da troppo tempo avevano difficoltà a dialogare: quella cattolica sociale e un’area laica larga, orientata ai valori della solidarietà e della giustizia sociale.

Si tratta di un perimetro assai sfrangiato, e molti degli attori che rientrano in quest’ “area” – se così possiamo definirla – hanno fatto fatica incontrarsi negli ultimi anni, in quanto a prevalere sono state le differenze, piuttosto che gli elementi in comune. Eppure, in un momento in cui, a livello internazionale, i diritti fondamentali sono sotto attacco e anche a livello nazionale si configura un’emergenza democratica su più fronti, è stata forse avvertita l’urgenza di riprendere un dialogo.

Non è la prima volta che questi mondi – che comprendono al proprio interno sfumature e sensibilità assai differenti – si incontrano. Talvolta hanno prodotto risultati politici straordinari: basti ricordare, a titolo emblematico, il “Percorso”, nei primi anni ’90, che sfociò nell’elezione a sindaco di Guglielmo Minervini, e che nasceva esattamente dall’incrocio fra anime differenti della sinistra e il cattolicesimo sociale e democratico. Alla base, le idee e l’esempio di Don Tonino, che più di tutti ha saputo rappresentare la possibile sintesi di questi percorsi, e che ha influenzato anche una parte importante della politica regionale degli anni successivi.

Ora, non è nostra intenzione proiettare la manifestazione verso fantomatici scenari politici o addirittura elettorali, che sconterebbero difetti di astrazione, non facendo i conti con i processi reali. Vogliamo solo dire che un dialogo fra queste aree può essere assai opportuno, anche al di là dell’evento per la Palestina. Certo non sarebbe facile, bisognerebbe lavorare sulla mediazione, per giungere a quel delicato lavoro di sintesi che ha permesso, ad esempio, la riuscita del corteo. Un interessante binario su cui lavorare potrebbe essere quello fornito dal testo della nostra Costituzione, che intreccia, all’interno di una trama coerente e dotata ancora di radicalità politica, principi chiari e potenti. Al centro, il valore della dignità, ovvero l’idea che non possano esistere libertà e uguaglianza senza che ci si faccia carico delle condizioni materiali in cui le persone si trovano a vivere.

Libertà e uguaglianza, insomma, sono valori astratti senza questo terzo principio, quello della dignità, ed è dalla convergenza su questa fondamentale equazione che si sono generati i grandi progetti politici del Novecento, tesi a promuovere l’uguaglianza sostanziale. Il rafforzamento del welfare, la difesa del lavoro, la garanzia dell’istruzione e dei diritti sociali, nascono con il fondamentale intento di promuovere la giustizia sociale, a partire dalla consapevolezza che il mercato, da solo, rischia di produrre disuguaglianze ed esclusione.

È un perimetro largo, come dicevamo, ma sarebbe già assai rivoluzionario convergere su una piattaforma così orientata, di questi tempi. Del resto, le minacce più grosse, a Molfetta, non vengono più, da diversi anni, dalla destra radicale, che pure vive una crisi di identità e di partecipazione, ma da un sedicente civismo dedito a proclamare – strumentalmente – l’equivalenza delle posizioni. Tommaso Minervini ha sdoganato l’idea che la politica non ha a che fare con lo scontro fra idee di società – e quindi di città – ma che il “bene comune” sia qualcosa di già dato, che precede lo stesso confronto politico, e che può essere promosso attraverso l’ “ordinaria amministrazione”, se fatta bene. Si tratta di un modello che, sottraendo l’idea stessa della cosa pubblica al dibattito politico, è servito in questi anni a legittimare determinati rapporti di forza e interessi privatistici, e che oggi è pronto ad essere usato da tutti quei soggetti in procinto di riciclarsi e di allearsi con chiunque, pur di governare.

La politica è scontro tra visioni, cui corrispondono interessi, identità, progetti di sviluppo. Ripartire da quei valori che hanno garantito il grande compromesso costituzionale, facendo reincontrare la tradizione cattolica dell’impegno sociale, del volontariato e dell’impegno civico (quello vero), con quella del solidarismo laico, può definire dei confini che tengano alla larga sia la destra reazionaria e conservatrice che il trasformismo ammantato di civismo.

Non è un cammino semplice, ma è l’unico modo per rilanciare i valori democratici.

© Riproduzione riservata

Autore: Giacomo Pisani
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Hai ragione a evocare Guglielmo Minervini e Don Tonino Bello come esempi di una stagione irripetibile per qualità umana e profondità politica, ma non sono stati soli: attorno a loro c’era un’intera generazione che credeva in una politica fatta di volti, biografie, comunità, valori. Ma oggi? La risposta onesta è che una figura “sostitutiva” di Guglielmo non c’è. Né sarebbe giusto cercarla, come se bastasse trovare un nuovo “nome forte” per ricominciare. Guglielmo non era solo un nome, era una pratica, un metodo, un’etica pubblica. Non si tratta, quindi, di sostituirlo, ma di replicare quella capacità generativa, quell’intreccio tra pensiero e azione, tra ascolto e proposta, tra impegno sociale e visione politica. Il punto è proprio questo: oggi mancano spazi politici in cui queste due culture – sinistra democratica e cattolicesimo sociale – possano confrontarsi e contaminarsi realmente. Manca una palestra in cui far crescere una nuova classe dirigente che non sia solo esecutrice o comunicatrice, ma interprete dei bisogni della società, e mentre noi cerchiamo – faticosamente – un punto di ripartenza, Tommaso Minervini ha già agito. Con una freddezza tipica del potere e una lucidità da navigatore esperto, ha decostruito l’idea di “appartenenza”, ha dissolto le culture politiche, ha spostato l’asse della legittimazione dal dibattito pubblico ai rapporti personali, dalla visione politica alla micro-mediazione quotidiana. Ha saputo parlare a pezzi sparsi di città, raccogliendo consensi in ambienti eterogenei, soprattutto nel mondo cattolico parrocchiale che, orfano di riferimenti politici forti, ha cercato rassicurazioni più che orizzonti. In questo modo ha vinto, due volte. È un dato. Ma non ha costruito un progetto. Ha costruito consenso. Ecco allora la grande questione: vogliamo continuare a inseguire il modello del “civismo fluido” che accoglie tutto e non cambia nulla, oppure vogliamo lavorare, con pazienza e determinazione, per ricostruire un campo politico e culturale solido, che torni a distinguere, che torni a dire chi sta da che parte e perché? Chi può farlo? Non un singolo. Ma una generazione che si metta in cammino. Giovani, militanti, amministratori locali, insegnanti, operatori sociali, preti di frontiera, sindacalisti, studenti. Chi crede ancora che la politica sia un atto di responsabilità verso la comunità, non un trampolino personale. Per farlo, però, serve un progetto. Serve metodo. Serve coraggio. Serve un linguaggio nuovo, non più autoreferenziale, non più nostalgico. Se la sinistra democratica e il cattolicesimo sociale vogliono rincontrarsi, devono riconoscersi non nella memoria, ma in una sfida comune al presente: quella della giustizia sociale, della pace, dell’ambiente, del lavoro, della lotta alle disuguaglianze. La febbre della città non si abbassa con l’aspirina del civismo d’occasione. Serve una cura più radicale. E per somministrarla, serve una nuova alleanza tra culture politiche, non un nuovo uomo solo al comando. Hai centrato un punto fondamentale: una manifestazione, per quanto importante e partecipata, non basta da sola. È un segnale, un inizio, ma non è ancora un percorso. La vera sfida comincia adesso: riuscire a trasformare quell’energia collettiva in consapevolezza, e la consapevolezza in azione politica e civica duratura. Sì, la città è “sporca” – in senso letterale e metaforico. Ma non si pulisce solo con le ramazze. Si pulisce con la coscienza, quella collettiva, quella che porta i cittadini a dire: “non mi basta lamentarmi, voglio capire, partecipare, costruire” ed è qui che nasce la possibilità di un progetto condiviso, non calato dall’alto ma nutrito dal basso, da chi ha visto che stare insieme per una causa – come è avvenuto nella manifestazione per la Palestina – è ancora possibile. Questa strada può essere percorsa se: • ci diciamo la verità, anche scomoda; • abbandoniamo l’illusione del civismo senza contenuti; • iniziamo a tessere relazioni vere tra mondi diversi, come già accaduto in passato; • rimettiamo al centro valori comuni: giustizia, dignità, partecipazione. In sintesi: una città più giusta non si costruisce con gli eventi, ma con la quotidianità dell’impegno. La manifestazione è stata la prova che un “noi” è ancora possibile. Ora va fatto crescere, giorno dopo giorno.
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