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Molfetta, oggi 14° anniversario della morte di don Tonino Bello. Strano ritardo dell'annuncio della beatificazione La Curia vescovile smentisce l'avvio del processo di canonizzazione
20 aprile 2007

 
MOLFETTA - 20.4.2007 - Ricorre oggi il 14° anniversario della morte di don Tonino Bello, vescovo dei poveri, presidente di Pax Christi. Vi proponiamo il ricordo pubblicato oggi sul quotidiano pugliese “La Gazzetta del Mezzogiorno” dal direttore di “Quindici” Felice de Sanctis dal titolo: "Per la gente è già santo".
 
Il tempo e la Chiesa - che ancora oggi si mostra prudente con una smentita sull’avvio del processo di beatificazione al quale aveva detto di voler pensare l’attuale vescovo di Molfetta mons. Luigi Martella (ne aveva parlato ad un incontro di sacerdoti qualche settimana fa) - diranno se don Tonino Bello è stato un Santo, ma il popolo lo ha già beatificato con quelle sue fotografie presenti in ogni casa, in ogni bottega, in ogni negozio, in ogni luogo di incontro e di riunione. Crediamo che solo Padre Pio, oggi San Pio, abbia avuto un simile privilegio.
Don Tonino è stato un vescovo scomodo per quel suo essere fuori degli schemi, ma autentico interprete dell’anima popolare: ecco perché tutti lo hanno amato, ecco perché a 14 anni dalla sua scomparsa (ricorre proprio oggi l’anniversario) la sua tomba, un giardino ad Alessano è sempre meta di pellegrinaggi soprattutto di giovani e di poveri, di gente semplice, che lui ha amato e privilegiato rispetto ai personaggi del potere.
La sua filosofia di vita della «Chiesa del grembiule» non era quella che esibisce i segni del potere, ma il «potere dei segni», del servizio agli ultimi, ai poveri che accolse senza remore nella sua casa, agli immigrati per i quali si spese senza riserve per trovare loro un alloggio e un lavoro, per i giovani precipitati nel tunnel della droga per i quali realizzò la «CASA» di accoglienza a Ruvo di Puglia.
Erano gli «ultimi», le «pietre di scarto» come scrisse in un bel libro, quelli a cui dedicava le maggiori attenzioni come «Massimo fratello ladro» della cui uccisione, da parte di un metronotte, viene a conoscenza da un ritaglio di giornale e si precipita ad «accendere una lampada sulla tua fossa senza fiori» e a celebrarne le esequie al cimitero, ma non può pronunciare l’omelia perché a quella messa non c’è nessuno. «Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti aveva ingiustamente ucciso tutta la città. Questa città splendida, altera, generosa e contraddittoria. Che discrimina, che rifiuta, che non si scompone. Questa città dalla delega facile, che pretende tutto dalle istituzioni. Che non si mobilita dalla base nel vedere tanta gente senza tetto, tanti giovani senza lavoro, tanti minori senza istruzioni. Questa città che finge di ignorare la presenza, accanto a te che cadevi, di tre bambini che ti tenevano il sacco!».
Scrive anche a «Giuseppe, avanzo di galera», col rimpianto di chi non ce l’ha fatta a redimerlo quando è andato da lui «stringendo con fierezza il foglio di congedo dalla prigione, come fosse un diploma di laurea. Era il foglio della tua libertà. A cena mi dicesti che in galera non saresti tornato più». Poi Giuseppe ricadde in tentazione e il vescovo non perde la speranza di brindare con lui al ritorno in libertà e a una sua nuova vita.
La vecchia «500» azzurra
Don Tonino scrive lettere appassionate anche alle persone che ha conosciuto e non ci sono più, come Mario, guardia campestre, ucciso con una pallottola in fronte all’alba di una livida mattina d’autunno: «ti hanno lasciato a terra come una biscia. Come una ramarro sfracellato. E sono fuggiti… Addio, Mario! Se oggi il tuo vescovo si ricorda di te, è perché sa che tu sei un povero a cui la nostra indifferenza sociale concede appena l’effimera emozione di un momento».
È il vescovo dei poveri che va in giro con una vecchia Fiat 500 azzurra un po’ malandata e dice al «fratello marocchino»: se passi da casa mia, fermati. Perdonaci se noi cristiani non ti diamo neppure l’ospitalità della soglia. Non dimentica «Gennaro, l’ubriaco»: anche dietro quella maschera di abbrutimento, con tutta la sua irrepetibile grandezza, c’è rintanata una «persona». In attesa di libertà!
Ma don Tonino è anche un vescovo scomodo per i politici per le sue battaglie per la pace, ancor prima di diventare presidente di «Pax Christi», per la quale si batte fino all’ultimo giorno della sua vita, quando, già malato, organizza la marcia a Sarajevo. La sua parola e la sua testimonianza dividevano (e dividono ancora oggi) i politici e anche la Chiesa (c’è chi lo vuole elevare agli altari per mummificarlo e chi teme che la canonizzazione amplifichi le sue parole).
Era un profondo uomo del Sud e sognava il suo riscatto: «L’Europa che nasce deve fare i conti con il Sud d’Italia - scriveva il 30 aprile 1992 - il quale, con la sua coscienza emergente, si rifiuta di assolvere il ruolo di “icona della subalternanza” per tutti i Sud della terra, ma vuole sempre più decisamente presentarsi alla ribalta mondiale come “icona del riscatto” dalle antiche servitù». Sorprese tutti a Molfetta la sua scelta di scegliere come simboli del suo episcopato un bastone come pastorale, una croce di legno come pettorale (donata a Pertini in visita a Molfetta) e la fede della sua mamma come anello.
La sua missione pastorale a Molfetta capitò in un momento difficile per la città, culminata con il supermarket della droga e l’assassinio del sindaco democristiano Giovanni Carnicella. E proprio con i politici, don Tonino non fu tenero fin dal primo giorno. Poco dopo il suo arrivo a Molfetta, era il dicembre ‘83 - come ricorda anche Carlo Ragaini in un suo libro - un gruppo di esponenti democristiani gli presentò la lista dei candidati alle elezioni amministrative: una consuetudine locale in forma di deferenza al vescovo. Don Tonino ascoltò con distacco quei politici e poi li congedò freddamente rifiutando di leggere quei nomi.
Fu quello il primo «incidente» con politici e amministratori locali. Poi prese l’abitudine di riunire tutti i politici locali in vescovado alla vigilia di Natale per fare gli auguri, ma anche per ricordare loro quale, a suo parere, fosse il compito di chi si occupa della vita pubblica: «Chi state servendo: il bene comune o la carriera personale? il popolo o lo stemma? il municipio o la sezione? il tricolore o la bandiera del partito... Quali patteggiamenti a scredito della giustizia; quali violenze a scapito della libertà; quali subdole perfidie contro gli indifesi; quali accordi disonesti sotto traccia, a vilipendio dell’onestà, ci vedono protagonisti?».
Una richiesta incredibile
Gli anni successivi i politici presenti divennero sempre più rari, fino allo «sgarbo» dell’assenza dell’amministrazione comunale alla festa patronale di S. Corrado e alla successiva affissione in città di un manifesto molto critico verso l’operato del vescovo. Forse da lì cominciò la sua malattia. Ebbene, don Tonino in uno dei colloqui che periodicamente avevamo con lui ci chiese una cosa incredibile: «dammi coraggio». La richiesta ci lasciò stupefatti: «Come - gli rispondemmo - un semplice cronista, deve dare coraggio a un vescovo che di coraggio ne sta dimostrando tanto ogni giorno?». «- ci rispose - perché anche un vescovo che si trova in una città non sua, ad affrontare tanti problemi e a incontrare tanti ostacoli, ha bisogno di coraggio. Non pensavo di ricevere tanta ostilità».
Ma le sue parole non erano di sconforto, non era abbattuto, era semplicemente amareggiato. «Avevi ragione - aggiunse - quando ci conoscemmo e mi descrivesti la città e i suoi abitanti, le sue paure e le sue ipocrisie, le sue vanità e le sue miserie». Naturalmente non potevamo sottrarci al suo affettuoso invito e cercammo, nel nostro piccolo, di dargli quel «coraggio» che ci chiedeva. Poi, più tardi abbiamo capito che era un modo tutto suo di dare «coraggio» agli altri, a noi in quel momento nel nostro lavoro di giornalista (lui credeva molto nel ruolo e nell’importanza dei mass-media), perché nel nostro discorso si intrecciarono, inevitabilmente, anche i riferimenti personali: «Vedi, don Tonino, anche a me è capitato, ecc…». Per lui era un modo per non farti perdere la speranza, per renderti «protagonista», attore e non spettatore della vita sociale e politica.
Era un personaggio straordinario, capace di essere discreto anche quando voleva darti coraggio senza fartelo pesare, senza darti l’impressione di voler invadere la tua sfera personale o di offrirti un aiuto non richiesto o infonderti un invito ad andare avanti senza avere paura.
Ecco perché don Tonino, vescovo scomodo, è stato tanto amato e tanto avversato. I cittadini di Molfetta lo portano nel cuore e anche chi non ha avuto la fortuna, come noi, di conoscerlo e di essergli amico, lo scopre oggi attraverso i suoi scritti, che restano di un’attualità sconcertante. Ecco perché oggi tutti ne sentono la mancanza. Don Tonino è stato e resta un profeta del nostro tempo.
 
Autore: Felice de Sanctis
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