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Marisa Carabellese e l’incanto di Dodici
15 dicembre 2016

La mostra dal titolo “Dodici” consente di focalizzare alcuni nodi concettuali della produzione dell’artista, intrecciando le ingegnose e visionarie congetture sugli architetti alle visioni astrali, nella fiducia che nulla di ciò che avviene tra cielo e terra sia riconducibile a mera casualità. I moduli ossessivamente ricorrenti nell’arte di Marisa Carabellese sono inequivocabilmente annoverati: il dedalo, condizione ontologica che finisce col riaffiorare nei più disparati moduli architettonici, introducendo una nota di perturbante complessità; il gabbiano, ossia il senso d’ali che rende ogni garbuglio un ponte verso l’approdo a nuovi libertari lidi; il drappo, quinta teatrale che abbatte la quarta parete e rivela la fictio, la costruzione intellettuale che si cela nell’oggetto di contemplazione estetica. È l›immaginazione che si percepisce e segnala come tale, nel momento in cui squaderna l›essenziale invisibile agli occhi. Così le architetture dei magnifici Gaudì, Chipperfield, Nervi acquisiscono consistenza quasi metafisica, frammenti, nel cosmico frastuono, di un’armonia cui solo una forza demiurgica può sovrintendere con attenta regia, disvelando, nell’umano genio, il soffio del divino. Del resto, come lasciava intuire Bloom, funzione del genio è anche il ridestare il God within presente al fondo della nostra anima. I segni zodiacali – accompagnati dalle prose liriche della scrittrice Angela De Leo, a fungere da commento – sono il frutto di un’attenta e pregevolissima opera di mellificazione, in un aereo movimento tra astrologia e mitologia, che nel particolare, nella pennellata inattesa, rivela l’attitudine a intrecciare un modernissimo dialogo con gli antichi. Se il mito riconduceva il segno del Toro agli amori tra Zeus ed Europa, ecco che, in un tripudio di toni caldi, più consentanei al mitico animale, rivive il ratto e si allude alla violenza, pudicamente riecheggiata nel ritrarsi della fanciulla e nel suo apparire creatura umbratile, selenitica rispetto al rapitore investito dalla luce. Se la costellazione del Leone sembra mostrare all’osservatore il felino acquattato, quasi ammansito dal corteggio astrale, anche la Carabellese ci dona, con ironia e finezza, una deliziosa figura femminile occhi chiusi, nel cui grembo si accuccia il predatore. Domato e domesticato dalla bellezza, ma non dormiente, esso rivela una perfetta simbiosi con la creatura umana, nella stessa misura in cui Ariete e donna si offrono specularmente agli sguardi, quasi fossero reciprocamente metamorfici. Sorge poi il dubbio che la creatura gitana con una bilancia per pendente possa essere una moderna riedizione della mitica Astrea, così come il pudore verginale della fanciulla con colomba incarna forse un desiderio dell’umano riscatto, che solo la purezza e il candore potranno consentire. E poi lo Scorpione: la tradizione cristiana, in particolar modo con San Zenone, ne aveva sondato le connessioni demoniche ed ecco la Carabellese regalarci le chiome cheliformi di una giovane corrucciata, pensosamente dispettosa, che ammicca alle Gorgoni anguicrinite, in un’aura di britannico humour. Nei Gemelli poi, e nella parabola di Castore e Polluce, si compendia la poetica dell’artista: la complessità e la frammentazione dell’Io, le necessità sociali che inducono alle finzioni (e quindi il perenne rischio della pietrificazione e l’incessante dialettica umanoartificiale), il rimosso celato nelle pieghe di una quiete apparente, l’angoscia del divenire. Nei primi “Gemelli”, non esposti in questa sede, a tali temi si affiancava anche l’anelito al bello ideale, ipostatizzato in una figura maschile di magnetica e androgina beltà. Chiudiamo con l’Acquario e con la sua delicata presenza femminile, che s’adagia sul fondale marino. Un lembo della veste, nel suo dinamico piegarsi, sembra alludere alla cascata di stelle che l’iconografia tradizionale vedeva riversata dalla brocca del giovinetto Ganimede. La fanciulla appare nel suo elemento: il volto è “quasi fatto virente” (per citare un’espressione dannunziana riferita a Ermione), come se panicamente ella divenisse tutt’uno con le alghe stesse. L’ambientazione nei recessi equorei non determina, tuttavia, un senso di apnea: cielo e mare sono volti complementari dell’armonia cosmica e, per l’artista, specole da cui intrecciare voli psichici verso l’immenso.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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