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Marisa Carabellese congetture sugli architetti contemporanei
15 novembre 2007

Questo è il labirinto di Creta il cui centro fu il Minotauro che Dante immaginò come un toro con testa di uomo e nella cui rete di pietra si persero tante generazioni come Maria Kodama ed io ci perdemmo quel mattino e seguitiamo a perderci nel tempo, quest'altro labirinto (Jorge Luis Borges). A volte per venir fuori dall'intrico in cui ci si perde basta un atto di fede, come quello del re arabo d'un noto apologo sempre borgesiano; in altri casi è la congettura che ci conduce, provando e riprovando, verso la soglia che ci salva dal labirinto. Il tema del “labirinto” e il fi lo d'Arianna della congettura sono le chiavi di volta per comprendere, sebbene in minima parte, le molteplici sfumature dell'ultima personale di Marisa Carabellese, “Congetture sugli architetti contemporanei”. La mostra è stata allestita presso la Sala dei Templari, in un percorso tra le opere d'arte che acquisisce un non so che di dedaleo; la realizzazione è frutto di una collaborazione tra l'artista, l'associazione “Caracciolo” di Molfetta, rappresentata dal prof. Domenico Facchini, e l'Ordine degli Architetti di Roma. L'inaugurazione, avvenuta il 13 ottobre, è stata impreziosita dal bellissimo intervento dell'architetto Rosa Mezzina, che, presentando l'allestimento, dedicato all'ing. Enrico Missori, s'è resa protagonista d'un'interpretazione non solo tecnica, ma anche en artiste, dell'opera di Marisa, in un sottile gioco di specchi, che l'ha indotta addirittura a ravvisare una somiglianza tra “le sembianze della nostra autrice” e un ritratto di Zana Hadid esposto da Marisa. In questa personale la Carabellese, sostiene Rosa Mezzina, “pur rivendicando il diritto di raccontare le proprie verità, [...] gli attribuisce il titolo di Congettura, lasciando agli altri, con doveroso rispetto, lo spazio e il tempo per un costruttivo confronto”. A noi sembra che questa mostra rappresenti un atto d'amore di Marisa Carabellese verso quella complessa e affascinante disciplina, ch'è l'architettura. Ciascuna delle sue opere appare frutto d'uno studio attento, a tratti ossessivo, che si coniuga con l'intento didascalico, che traspare dai profi li biografi ci degli architetti “congetturati”, presenti accanto a ciascun dipinto e curati dalla Carabellese stessa, con il proposito di facilitare la fruizione dei suoi studi. Ci colpiscono in particolar modo la solarità, la bellezza quasi giocosa del dipinto dedicato a Gaudì, una sorta di parcogiochi dell'anima, sui cui lo sguardo riposa sereno. Sguardo che assiste impotente, invece, alla totale perdita di punti di riferimento in uno spazio che sembra fl uttuare nell'aria, nella congettura consacrata a Zana Hadid. Qualcosa di primitivamente umano campeggia nella bellezza straniante dello studio sul Nervi in cui l'ossatura in cemento armato diviene “quasi una colonna vertebrale”; altrove emerge con eleganza il fertile connubio tra antico e moderno, come nel dipinto dedicato all'opera di Rosa Mezzina o in una delle due tele sul giapponese Kenzo Tanje, con reminiscenze michelangiolesche. Proprio la memoria si confi gura non quale ingombrante fardello di cui liberarsi, ma come uno strumento indispensabile per meglio districarsi nei meandri che conducono al futuro. Forse la doppia luce che, nella tela in cui si allude alla ricostruzione d'Hiroshima e Nagasaki, fi ltra dall'alto e dal basso vuol signifi care, un po' come il mito dell'araba fenice, proprio questo: non bisogna disfarsi delle ceneri del passato, perché, solo se si custodisce con cura il ricordo di ciò ch'è stato, la rinascita costituirà la base d'un progresso. Ai labirinti altrui Marisa affi anca i propri, tra rovine che si stagliano in un paesaggio d'incanto. Ci rivela che anche la rosa, “quella di qualsiasi giardino e qualsiasi sera” per dirla con Borges, cela, nella sua “inmarcesible” bellezza, una struttura labirintica. Persino in un autoritratto a metà, nel senso concreto del termine, parte del viso è sostituita da un puzzle, forse una variazione sull'infi nita frantumazione dell'io. La cifra della pittura della Carabellese emerge in ogni tratto: nelle crepe delle scale, nei voli di gabbiano (la sua sphragìs), nei magrittiani drappi che esplicitano il carattere illusionistico di quanto ci circonda. Ciò che però maggiormente colpisce è l'ironia dell'autrice: se solo a una sorta di entità ectoplasmatica sembra concessa la fuga dal labirinto, in realtà in ogni dedalo fi ltra la luce – indice di speranza, sorretta da profonda fede in Dio - e spesso l'uscita risulta sorprendentemente a portata di mano. Nel covo del Minotauro, la cui ombra si proietta in un intrico che mi appare a tratti estremamente somigliante alle pericolose tane della moderna burocrazia, le vie di scampo sono sbandierate con disinvoltura tale, che arriviamo a supporre si tratti di trappole. Forse la verità risiede in quella Luna che, in raffi natissimo gioco, si specchia nel fondo della costruzione d'uno dei dipinti più suggestivi. Ché magari, alla fi ne della galleria, sciolte miracolosamente “le reti di pietra” che ci stringono (Borges), ciascuno di noi avrà l'occasione di rimirare la propria anima, come in uno specchio. E di scoprire che proprio essa è il labirinto più inestricabile.
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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