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In questa isola abondano cavalli, polvere e putane Il viaggio di don Francesco, gaudente cappell ano di galea
15 novembre 2014

Il 20 maggio 1511 salpa da Venezia per una lunga crociera una galea da combattimento, comandata dal nobile Marco Bragadin, padre di Marcantonio, eroico difensore di Famagosta, scorticato vivo dai turchi nel 1571, dopo la caduta della città e di Cipro. Assistono il sopracomito, termine che designa il comandante delle navi da guerra veneziane che, di regola, è un nobile, due giovani aristocratici che fanno scuola di comando. La difesa è affidata a 110 balestrieri, a 3 cannoni di piccolo calibro e a 4 colubrine. Due alberi a vela latina assicurano la propulsione insieme alla voga di 60 galeotti allo stato libero, detti “buonavoglia”, arruolati e pagati a viaggio, e autorizzati a partecipare alla spartizione dei bottini nemici. Completano l’equipaggio dieci marinai alle manovre, un cuoco, uno scrivano ed un cappellano. Quest’ultimo, Francesco Grassetto da Lonigo, di circa 30 anni, ci ha lasciato il diario della navigazione, pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1886 e intitolato “Viaggio di Francesco Grassetto da Lonigo lungo le coste dalmate, greco-venete ed italiche nell’anno 1511 e seguenti”. La Repubblica di Venezia, pesantemente sconfitta ad Agnadello il 14 maggio 1509 da francesi, spagnoli e imperiali, alleatisi nella Lega di Cambrai con la benedizione di Papa Giulio II, ha rinunciato al suo espansionismo in terraferma, ma è riuscita a salvare gran parte del suo territorio, approfittando abilmente delle rivalità dei suoi nemici. Conserva invece ancora intatto il suo impero marittimo nel Levante mediterraneo che, seppure strenuamente difeso, andrà sempre più riducendosi a partire dalla seconda metà del 500. Questo diario di viaggio, fortunatamente giunto fino a noi, per quanto mutilo della fine, è interessante per varie ragioni. In primo luogo ci da la possibilità di conoscere, giorno per giorno, la vita di bordo di una galea veneziana in assetto di guerra, in perlustrazione in Oriente, alle prese con continui e feroci combattimenti con ogni genere di pirati e corsari, turchi, genovesi e catalani e senza bandiera. In secondo luogo ci ragguaglia sulle rotte, gli appuntamenti ed i movimenti, perfettamente sincronizzati, delle altre squadre armate della Serenissima, che fanno capo alla grande base navale di Corfù, per poi diramarsi in tutto il Mediterraneo orientale, per la protezione del dominio insulare e dei convogli di galee grosse da mercato, provenienti da Creta, Alessandria e Beirut. La flotta veneziana è colta e descritta minutamente al momento della sua massima potenza da un testimone oculare degno di fede, orgoglioso della sua appartenenza, ma, bisogna pur dirlo, abbastanza particolare. Innanzitutto, non fa alcun cenno alle cure spirituali che, come c appe l l ano stipendiato, avrebbe dovuto prestare all’equipaggio della galea, forte di circa 200 uomini. In secondo luogo, è estremamente sensibile alla presenza muliebre che gli capita di incontrare nelle numerosissime isole toccate dal battello e che descrive con accenti che vanno dai complimenti cortesi e svenevoli alla trivialità d’angiporto. Ma quello che in lui è estremamente esilarante è l’ossessivo sfoggio di reminiscenze classiche, maldestramente citate, con evidenti ma goffe ambizioni letterarie. Il Nostro è invece attento e preciso nel descrivere il grande movimento navale di cui è testimone, anche se è molto cauto nel riferire gli accordi diplomatici e politici della Repubblica e le relative disposizioni che il Dogato impartisce ai comandanti delle squadre. Seguiamo dunque Bragadin nel suo lungo viaggio in Levante, insieme alla sua galea ed al suo bizzarro cappellano. 17 giugno: Dopo aver toccato Pola, Zara, Curzola, Ragusa e Cattaro la galea si ormeggia nel grande porto di Corfù, base navale della Repubblica. Qui tutti i sopracomiti delle circa 20 navi alla fonda nella baia, vanno a rapporto da Girolamo Contarini, comandante generale della flotta. Si decide di uscire in “arcipelago”, cioè nell’Egeo meridionale, per una crociera che durerà praticamente tutta l’estate. L’armata sarà divisa in flottiglie composte in media da 3 galee: queste dovranno bonificare le zone sensibili dagli agguati delle fuste turche, che andranno annientate senza prigionieri; scortare il passaggio dei convogli commerciali provenienti da Alessandria e Beirut, informarsi sullo stato delle fortezze venete poste a guardia delle isole, non attaccare, ma controllare i convogli battenti bandiera genovese e francese. 29 agosto: Bragadin torna a Corfù. Il 13 settembre riparte per il Levante, con l’incarico di scortare, all’altezza di Cerigo, le galeazze da mercato provenienti da Beirut. Tuttavia, il prosieguo del viaggio sembra avere altri compiti, non molto chiari, che Grassetto non riferisce. 26 settembre: Breve scalo a Creta, quindi rotta per il Dodecanneso. Nell’isoletta di Gierra i galeotti hanno il permesso di sbarcare e di predare per loro uso animali, vini e frutta. Il 9 ottobre attracco a Rodi, dove si vedono 2 galee ben armate dei Cavalieri di San Giovanni e 2 fuste catturate e semi distrutte. 13 ottobre: Battaglia navale a largo dell’antica città di Mira, ormai semidiruta, patria di San Nicola. A proposito di una fusta turca che fugge via, vedendo che non può recuperare niente delle altre due affondate, il nostro cappellano, con il linguaggio colorito che impareremo a conoscere, la giustifica, giacché “nudum culum nemo spoliabit”. 18 ottobre: La galea si ancora a Famagosta, nell’isola di Cipro. Francesco descrive l’isola dal punto di vista agricolo e commerciale, si dilunga sulle saline, ma esordisce lapidariamente: “In questa insola queste cose abondano, cavalli portanti, polvere e putane”. 4 dicembre: Il sopracomito salpa da Famagosta, mette la prua a Ponente, e il 27 gennaio 1512 si ormeggia a Corfù, dopo aver incrociato per circa 4 mesi fra isole ionie e coste albanesi. Il 31 maggio la galea doppia il Capo di Santa Maria, punta estrema della Puglia. Tutto il resto del viaggio sarà fatto in conserva con le due galee di Francesco Contarini e Pietro Polani, quest’ultima candiota. 9 giugno: Dopo Brindisi, il battello entra nel porto di Otranto. Grassetto accenna all’assedio turco di 32 anni prima, alle ossa raccolte nell’arcivescovado, ma dice anche che i turchi “Menorno assai prexoni voluntarj”, il che non è una notizia da poco. Il 23 dello stesso mese sono a Bari e, alle otto di mattina del giorno dopo si ancorano a Molfetta, dove assistono alla messa. “Quivi de optimi vini ne furno prexentati, pan et poli, de frute infinite dati”. I nostri concittadini furono molto ospitali, probabilmente dopo aver visto i 100 soldati ed i 4 cannoni della galea. In questo torno di tempo, Venezia e la Spagna sono alleate, ma non bisogna mai dimenticare, e Grassetto non ne fa mistero, che quella di Bragadin, è una nave da guerra in perlustrazione e, si direbbe oggi, con ingaggio versatile. Il 25 sono a Barletta, e qui, il Nostro supera se stesso. A proposito del colosso, riferisce di aver ascoltato nel borgo la storia della statua. Essa raffigurava il Duca e Signore della città che, per gelosia teneva segregata la moglie, la quale, nondimeno, era riuscita a far entrare l’amante dalla cantina. Al che, il poveruomo si dileguò per sempre. Le barlettane, per scherno, gli eressero poi quella statua. Segue tutta la storia in orribili versi, con un finale pirotecnico, che trascrivo per maggior comprensibilità. Conclude il colosso: “E per lei parto addolorato: e perciò così si dice dell’anùlo (cioè dell’anello, del matrimonio), chi si fida lo prende in culo”. Dopo aver lambito le coste del Gargano, il 27 giugno Bragadin è di nuovo a Molfetta. È evidente che la bella stagione e la bellezza della costa pugliese stimolano gli ardori e le goffe ambizioni del nostro. E così, lasciano la nostra città, dedica a lei ed agli altri borghi della costa, questo ennesimo “parto” poetico: “Et a Molfeta arivamo, et quivi tutte done èli sì formose, qual anchora altrove sia gratiose, però così si latina, a cui veder bele done desìa, venga a Molfeta, Polignan e Baseia, acosto la marina”. Ancora una breve sosta a Corfù; quindi le tre galee salpano verso Ponente, toccano Messina, Napoli, Civitavecchia, Piombino, Genova. Il 20 agosto attraccano a Savona, e prendono contatto con una squadra navale ispano-genovese, alle prese con alcuni feudatari liguri, ancora fedeli ai francesi. Bragadin incrocia nel Mar Ligure, con finalità non sempre chiare, fino a dicembre inoltrato. A gennaio 1513, ridiscende il Tirreno, entra nello Ionio e il 5 aprile è finalmente a Corfù, dopo un viaggio lunghissimo di 2 anni, denso di combattimenti, tempeste, inverni di ghiaccio ed estati infuocate. Ma l’ineffabile Grassetto è personalmente poco interessato a questi aspetti della navigazione. La Liguria e la sua lussureggiante vegetazione a strapiombo sul mare hanno vieppiù scatenato l’incontenibile sua libidine. In pagine numerose, quanto esilaranti, descrive minutamente la sua infatuazione boschereccia per un’avvenente e giovane ninfa ligustica, chiamata Violantina. Per fortuna, ha il pudore di risparmiarci l’apoteosi finale. A parte la personalità di questo prete e le sue mirabolanti avventure, questo Diario di viaggio, necessita, a mio parere, di un’edizione critica, per la sua rarità e per il suo valore storico-documentario, oltre che umano. Due anni di navigazione massacrante, praticamente a cielo aperto, con 100 soldati all’addiaccio e 50 galeotti alla voga, meritano di essere ricordati degnamente. Marco Bragadin non lascia la sua galea, anche quando rischia di affondare, anche per un solo istante. Proprio come il prode Schettino.

Autore: Ignazio Pansini
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