I poeti e la crisi
Il concetto di crisi si colora di molteplici sfumature e assume valenze plurime, che spaziano dall’ambito politico all’economico, sino a presentare risvolti di carattere etico. In ogni epoca si tende alla laudatio temporis acti, finendo pertanto con l’idealizzare un passato troppo idillico per non rappresentare una costruzione fittizia. Resta pur vero che questo primo scorcio di millennio, in seguito a una sfavorevole congiuntura economica, è divenuto scenario di una profonda crisi, con, in parallelo, l’aggravarsi di gravi problematiche geopolitiche nello scacchiere internazionale. Dalla volontà di riflettere sul concetto di crisi, è scaturita quest’interessante pubblicazione curata da Giovanni Dino, I poeti e la crisi, edita nel 2015 per i tipi della Fondazione Thule Cultura. La silloge raccoglie esperienze poetiche di scrittori emergenti o già affermati, sino a pervenire a figure ormai consacrate dal panorama critico, quali la grande Alda Merini, di cui sono antologizzati bellissimi, icastici versi sul “rumore” della poesia: i poeti, “nel loro silenzio”, “fanno ben più rumore / di una dorata cupola di stelle”. Generalmente medio-alto il livello delle esperienze proposte, circa un centinaio; ovviamente non mancano testi che presentano acerbità, perché magari ancora necessitanti di un ulteriore affinamento delle risorse espressive. Non si potrà rendere conto di ciascuno dei testi del florilegio, ma ci si limiterà a una campionatura; accanto agli autori che citeremo, ci piace segnalare anche le opere di Lucianna Argentino, Mariella Bettarini, Domenico Cara, Mariella Caruso, Viviane Ciampi, Grazia Cianetti, Domenico Cipriano, Carmelo Consoli, Anna Maria Curci, Maria Teresa Giani, Agnese Girlanda, Giacomo Leronni, Viviana Mattiussi, Anita Menegozzo, Giancarlo Micheli, Ester Monachino, Antonio Nesci, Ezio Partesana, Laura Pierdicchi, Domenico Pisana, Marina Pizzi, Marcella Saggese e Italo Spada. Si possono ravvisare molteplici itinerari creativi, alcuni protesi verso l’accentuazione di un espressionismo apocalittico (le visionarie alchimie di Antonella Barina), altri caratterizzati da un’impostazione più vicina al realismo minimale (Andrea Barbazza) o da una narratività dalle implicazioni simboliche (Giovanni Fighera). Non di rado, avviene che l’armamentario mitologico classico (si pensi alle Erinni) sia rimesso in circolo per spiegare, alla luce di antiche categorie, nuove congiunture funeste per la società; talora, poi, riaffiorano aspirazioni che rinviano ad archetipi dell’umanità, quali l’attesa di una nuova età dell’oro, concetto ben declinato da Nazario Pardini. Appare decisamente tramontato il mito del poeta vate o dell’intellettuale legislatore, ma ciò non implica che alla poesia non sia possibile esercitare una funzione civile, come dimostrano la solidità epigrammatica di Diego Guadagnino, l’invettiva di sapore profetico contro il male metafisico di Filippo Giordano, la tensione etica di Lia Bronzi o di Rino Bizzaro, la solennità quasi sacrale di espressioni come i versi di Eugenio Giannone, con il suo requiem per i caduti di Lampedusa, o ancora i bei “versi di fuoco” di Alain Rivière o le parole di Zaccaria Gallo (“Non ego te absolvo banchiere / il tuo tallone corrotto politico / d’insaziabile fame amministratore / Io non m’inchinerò al tuo potere / sacerdote d’un altare senza amore / io m’inchinerò soltanto a un fiore). D’altro canto, spesso questi poeti (per esempio Gianmario Lucini) meditano sull’asservimento dell’intellettualità all’establishment dell’industria editoriale e dei mass media e decretano il fallimento di questa pseudocultura infiocchettata e malata di narcisismo. La nostra concittadina Jole de Pinto, traendo spunto dai mala tempora che hanno indotto un poliziotto a uccidere il proprio figlio e a suicidarsi, dà voce, con nobile accoramento e stilistica compostezza, alla tragedia di un’epoca che ha smarrito la “fede nella vita”. La compianta Maria Grazia Lenisa, facendo proprio il monito valliano, addita all’uomo moderno e all’intellettuale la necessità di deporre le catene della cieca obbedienza ai vincoli dell’autorità, perché si possa ancora assaporare l’ebbrezza del volo intellettuale. Il tunnel senza fine in cui la contemporaneità sembra aggirarsi conosce una delle più felici declinazioni nella discarica di Giuliano Ladolfi, che ha memoria ariostesca; germoglia la metafora delle “mosche cocchiere”, che ben esprime l’odiosa iattanza e l’empietà di un potere oscuro e vampiresco. La stessa accolita di potentati contro cui si scaglia Daniele Giancane, poco convinto dell’applicabilità ai tempi odierni della categoria di “progresso”, ma fiducioso nel potere eversivo e rigenerante di quelle larve inquiete che chiamano “poeti”. Sono loro, come è affermato nelle rime di Anna Santoliquido, che coltivano i “gigli bianchi” della “dignità” e della “fierezza”, forgiando una sorta di laico evangelo. Sono i poeti a dare cittadinanza al beatlesiano “Nowhere man”, di cui canta con commozione Giovanni Dino, curatore della raccolta. Sono i poeti i soli che, sfidando la plutocrazia, partono ancora quotidianamente verso l’ignoto, Argonauti alla ricerca del vello della Bellezza, esploratori del sacro mistero dell’Essere, come emerge nei versi del nostro concittadino Marco Ignazio de Santis. Essi non sacrificano sull’altare di Mammona, ma fanno ardere incensi nei “santuari” delle Muse, pronti a carpire ogni “riverbero della musica cosmica”. “Così la nevrosi si riscatta / nel solco della pagina / e alza i suoi vessilli / contro la follia del mondo”.
Autore: Gianni Antonio Palumbo