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Fa' re 'ffave Un detto molfettese per un gesto interregionale
15 novembre 2004

Esiste nel longevo dialetto molfettese un'espressione che descrive un gesto, con il quale secondo le circostanze è attuato uno scherno o uno scongiuro. Il gesto consiste nel mostrare composta o nel comporre la mano a pugno, inserendo il pollice tra indice e medio. Tal gesto è detto “fare le fave” (fa' re ffave) con entrambe le mani, “fare la fava” (fa' la fave) con una. A quest'espressione corrisponde in italiano (toscano) “fare la fica” o “le fiche”, come contro Dio fa, parole di Dante!, in un celebre luogo dell'Inferno (If.XXV, 2: “le mani alzò con amendue le fiche”) un celebre personaggio (Vanni Fucci). Il gesto schernente od apotropaico nella mia opinione è simulazione dell'organo femminile, come conferma il detto toscano e l'uso attuale della parola nel significato traslato di vulva. C'è chi pensa ad analogia vegetale: la causa dell'attribuzione del nome del fico (femminile nei dialetti meridionali) sarebbe nella somiglianza della vulva al frutto: tal nome equivarrebbe ad un vocabolo molfettese, che solitamente indica la parte carnosa d'un corpo e che solitamente udivo usare, per distinguere il corpo della pescatrice (coda di rospo) dalla vasta e cartilaginosa testa. Tal vocabolo è “tarìedde” e l'udii pronunciato in senso traslato dagli operai di mio padre più di mezzo secolo or è. Essi in presenza delle operaie interessate, compagne di lavoro, dicevano d'aver scorto di loro “u tarìedde” durante la passata festa dell'ascensione, mentre volavano ilarmente sul “tundre”. Il traslato “fico” renderebbe quindi l'idea della carnosità della parte, vista nella sua compattezza, in una posizione solidale, di riposo, favorita dalla posizione delle cosce. Ma in toscano non mi sembra che il fico si sia detto al femminile. Femminilizzato in ordine alla femminilità dell'attribuzione? La fava è invece il segno della vulva non resa compatta, ma quale può essere vista su una donna che si piega avanti, divaricando un po' le gambe, sì da scoprire parzialmente le parti interne dell'organo esterno. Si fa la “fica” o la “fava” in segno di dileggio verso padrone, superiore, autorità, persona ossequiata. Le autorità erano maschili, quindi chi veniva fatto bersaglio di fica/fava, era pareggiato ad una donna, che nell'opinione maschile aveva come unico fine ed aspirazione il coito ed era priva d'interessi superiori, seri, di competenza qualsivoglia. Insomma la potenza dileggiata era abbassata al sesso che un tempo ottusamente era definito “debole” o peggio. Stante poi la scarsa sporgenza dell'alluce dalla gabbia digitale, ulteriore prova della femminilità del simbolo, la fica/fava diminuiva alla dimensione clitoridea il pene dell'oltraggiato. In senso apotropaico il gesto può avere due spiegazioni: la difesa scimmiesca ed umana da una presenza minacciosa, paurosa; la fiducia nella produttività e creatività della natura/femmina. Nella prima accezione la scimmia o donna, anziché guardare l'ente pericoloso e la sua faccia e quindi permettergli d'incutere timore attraverso gli occhi o piuttosto che manifestare negli occhi e nel viso la paura incussa dall'aspetto pauroso dell'altro, gli oppone, pavida e temeraria al tempo stesso, una parte del corpo non impressionabile né leggibile. Tal parte, il sub-fondo della schiena, infatti, non riceve più, come farebbero gli occhi, impressioni spaventose e non ostenta quelle, che ha ricevute, distraendo (come lo struzzo) lo sguardo dalla percezione del minacciante (oggetto) e sottraendo il viso alla vista del minacciante (soggetto). Agendo così, è pavida. Tal gesto per di più deve significare che essa è pronta ad orinare o defecare per vilipendio. E' la difesa della puzzola ed altri animali. Insomma una cura della paura attraverso un tentativo d'incutere paura con emissioni non onorifiche. Questo è l'aspetto temerario del gesto. Il quale esprime anche un atteggiamento sprezzante a cominciare dalla più modesta delle situazioni: per esempio un alterco. La donna del popolo ha ancor in uso dire “e chèsse te respònne”, voltandosi e protendendo le natiche (non più la vulva per decoro) ai collocutori-rivali, in segno di disprezzo o almeno d'indifferenza. Un significato di scongiuro assume il gesto, se opposto alla malasorte, cioè un'entità superiore, soverchiante l'individuo malcapitato. Tal atteggiamento può volgersi anche in sfida alla stessa (mala)sorte, assimilabile sia ad un essere terreno minaccioso e persecutore sia alla potenza d'avversa entità divina. Il gesto che fa Vanni Fucci nell'Inferno. Chi fa la fava, compie lo stesso gesto finora descritto, opponendo in simbolo una parte escrementizia alla minaccia della malasorte in forma d'uomo, d'animale, di divinità o di concetto similmente figurato. In tal impiego di sfida alla sorte e resistenza all'avversità, il gesto, riproducente l'aspetto della vulva, è anche simbolo della produttività e creatività dell'elemento femminile nella natura: la terra, la mandria, la donna. Quindi fare la fava o la fica significa ricorrere al bene della fertilità contro il male della sterilità. Tal bene è simboleggiabile solo con l'organo sessuale femminile esterno, che difatti produce (latinamente) fe-tus, cioè organismi viventi, come la terra (fe-cunda). Perché “fava”? Dobbiamo pensare al singolo elemento del legume, non al baccello. Ogni fava è legata all'interno del baccello da un'attaccatura, perciò, sia secca sia verde, essa sembra ospitare in una lieve cavità un elemento colmante e sporgente, come la parte esterna (grandi labbra) della vulva contiene l'interna (piccole labbra) e ne sporge il clitoride. Se i meridionali siano stati in qualche modo “contagiati” da significati pitagorici propri o deformati non saprei dire. E “fica”? E' stato già considerato il frutto del fico. Ma ragioniamo ora linguisticamente e secondo probabilità. Nel medioevo e rinascimento l'organo femminile era colloquialmente detto “lo fesso”, cioè “la fessura”. L'origine è il latino fissus (donde fisso/fesso come fissione, per esempio dell'atomo; fissura o fessura) da findere (fendere). Tal participio-aggettivo ha suono vicino a fixus (donde fisso come fissione, usati in composizione: affissione-affisso, defissione-defisso, crocifissione-crocifisso…; ma anche fitto: confitto, sconfitto) da figere (figgere, affiggere, configgere…) I due participi-aggettivi si saranno confusi nell'evoluzione del latino in lingua romanza, precisamente spagnola, in cui fixus (fixar) (figgere, fissare > fisso) e fissus (< findere) avere per risultato fijo (>fijar) (fendere > fesso). I due verbi forse s'incrociarono e confusero al punto che oggi in spagnolo sia fixar sia fijar significano figgere, fissare. Ma prima d'abbandonare il campo nel senso di findere (fendere), fija, femminile di fijo (fesso, “lo fesso” in italiano premoderno), lasciò una traccia in Italia, a lungo dominata dagli spagnoli, divenendo “fica”. Questo eventuale percorso linguistico toglierebbe ogni verosimiglianza alla contiguità della colloquiale fica con il frutto del fico, sebbene Tinto Brass, primo tra gli “artisti figurativi”, in un'inquadratura del film “La chiave” abbia (cosa mai tentata da alcun pittore, ritenendosi irrimediabilmente inestetica quella parte nell'organismo molto spesso incantevole della donna) sublimato esteticamente la vulva di Stefania Sandrelli della seconda stagione e l'esito di quel lavoro di composizione del corpo sia razionalmente fruttiforme (sicomorfo, più vicino al fiorone che al fico). L'organo maschile nella gestazione è rappresentato invece da un dito teso (indice o medio, meno mignolo) o dall'avambraccio destro irrigidito e delimitato dalla mano sinistra. Antonio Balsamo
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