E fu tempo di bilanci per Salvemini
Frammenti di storia
Ripiegato su se stesso, dal 18 novembre 1922 al 24 settembre 1923, Gaetano Salvemini tenne un diario degli eventi politici e interpersonali più notevoli, cui diede il titolo di Memorie e soliloqui. Nel distacco dalla politica militante, quel diario, con l’intento di chiarire a se stesso e agli altri lo svolgimento dei fatti di quei mesi, da un lato pose le basi del futuro contributo salveminiano all’interpretazione delle origini del fascismo, dall’altro finì per rivelarsi la testimonianza dello smarrimento di un intellettuale di fronte al tracollo del mondo liberale e socialista sotto i colpi del mussolinismo. Per Salvemini, comunque, fu tempo anche di bilanci personali. La riprova è in alcuni appunti del 25 gennaio 1923 riguardanti il suo meridionalismo e la sua azione propagandistica in Terra di Bari e a Molfetta: «Avendo dedicata la mia attività politica al problema del Mezzogiorno, mi sono trovato senza base nel Mezzogiorno, che è troppo ignorante, inerte, troppo pezzente intellettuale e morale per vedere i suoi diritti e per sostenere chi sostiene i suoi diritti. In provincia di Bari non più di una mezza dozzina di persone ha capito, dopo venti anni di propaganda, le mie idee. I contadini hanno intuito confusamente che ero con loro, ma non erano in grado di creare un movimento organico, povera gente! Avevano bisogno di una classe dirigente, che li inquadrasse; ma non l’hanno trovata. Nel decennio 1904-1914 io non riescii a raccogliere intorno a me nessun gruppo abbastanza numeroso di piccoli borghesi: questi sentivano che ero loro avversario. Vennero con me appena cinque o sei giovani generosi ma non pratici; gli altri – pochi del resto – non valevano niente, e non capivano niente. Il più forte nucleo dei miei seguaci piccolo-borghesi, quelli di Molfetta, non aveva che una preoccupazione: farsi aiutare da me, sventolarmi come bandiera per uccellar voti nella conquista del Comune. Dopo la guerra, sembrò che i combattenti venissero con me; ma questa era una tale razza di mascalzoni, che sudo freddo a pensare di essermi unito con loro! Ed ora sono andati a finire al fascismo: anche qui la massa dei contadini è buona, i condottieri sono piccolo-borghesi meridionali, quali li ho descritti io per la prima volta meritandomi i loro odii. Io, dunque, non ho avuto mai nessuna base nell’Italia meridionale. Fra me e i contadini non si è formata quella gerarchia intermediaria, che doveva muovere i contadini secondo la direzione delle mie idee: e non si è formata, perché la classe, che doveva dare questa gerarchia, la piccola borghesia intellettuale è marcia spiritualmente e si sentiva minacciata dalla mia propaganda e dalla mia azione». Anche la funzione svolta dal settimanale L’Unità dal 1911 al 1920 fu sinteticamente vagliata da Salvemini. Ecco il passo in questione: «Dell’Unità si vendevano tante copie nella sola Torino, quante in tutta l’Italia meridionale. E qui il giornale si vendeva soprattutto in Terra di Bari e in Terra d’Otranto – una cinquantina di copie in tutto! – perché io e [Antonio] De Viti [De Marco] vi avevamo un certo numero di conoscenze personali, che si abbonavano per amicizia, e non capivano niente di quel che leggevano, seppure leggevano il giornale quando arrivava! Se non avevo base nel Sud – che non mi capiva – meno che mai potevo averne nel Nord, che… mi capiva. Tutta la mia opera antiprotezionista e antiparassitaria urtava contro gli interessi della borghesia settentrionale e delle miserabili oligarchie operaie e cooperative incrostatesi nel Partito Socialista. In questi ambienti la mia azione doveva riescire sterile. Ebbi un migliaio di seguaci fra i giovani migliori della borghesia intellettuale, i quali mi capirono perfettamente; ma anch’essi erano esclusi da ogni azione efficace per opera degli interessi prevalenti nel Nord. Li avessi avuti nel Sud: sarebbero stati il mio Stato Maggiore. Nel Nord sono rimasti paralizzati in un ambiente ostile». Poi Salvemini passava a valutare l’impatto della sua indole inflessibile e polemica sulla fortuna della propria azione politica nella considerazione di amici e avversari: «I miei amici e i miei nemici attribuiscono al mio temperamento angoloso, risentito, intransigente, critico, oppositore costituzionale, l’insuccesso della mia opera. E certamente, se avessi avuto maggiore souplesse, mi sarei procurato meno nemici personali. Ma non per questo le mie idee avrebbero avuto maggiore fortuna. Giustino Fortunato ha avuto un temperamento dolce, desideroso di quieto vivere, alieno dalle polemiche: che cosa ha ottenuto? De Viti De Marco è ben più equilibrato, ben educato, “signore” di me: che cosa ha ottenuto? […] No, non è stata questione di incompatibilità fra il temperamento mio e quello degli altri: è stata la inconciliabilità delle idee. Queste non potevano essere comprese nel Sud, per cui erano fatte; non potevano essere accettate al Nord, contro cui erano dirette. Il mio temperamento è stato il resultato delle mie idee, non la causa del mio insuccesso». Infine Salvemini sottolineava i punti a suo vantaggio, individuati nel tenacissimo impegno per la scuola laica e la riforma scolastica insieme a Giuseppe Kirner e Alfredo Galletti, nella battaglia per il suffragio universale e nella campagna di stampa condotta su L’Unità sin dal 1917 per una pace equa nell’Adriatico e per la risoluzione del contenzioso sui confini italo-jugoslavi, avvenuta nel 1920. Ecco le sue parole: «Idee positive ne ho messe fuori in abbondanza: lo stato giuridico degli insegnanti, il suffragio universale, il trattato di Rapallo, sono dovuti a me; se non altro li ho predicati io prima di chi li realizzò. Ma quando ho cercato di mettere avanti le idee necessarie al Mezzogiorno, mi sono sempre trovato di fronte alla inerzia del Sud e alla ostilità del Nord. E ho dovuto fare la polemica, essere angoloso, mostrarmi critico intransigente, e… rimanere solo a fare il Don Chisciotte. Se avessi rinunziato alle mie idee, per “inserirmi”, come si dice oggi, “nella realtà”, sarei diventato anch’io un uomo “pratico”, “fattivo”, “autorevole” come tutti i meridionali, che si sono messi al servizio degl’interessi capitalisticiproletari settentrionali. Ma ad quid perditio haec?». Salvemini chiudeva sentenziosamente il bilancio politico di un diciottennio e della sua intransigenza aliena da compromessi carrieristici ricorrendo a un passo latino del Vangelo di Matteo (26, 8): «A che scopo questo spreco?». Dominato da tale sentimento e impegnato intensamente nelle lezioni universitarie, lo storico in tre mesi, dal gennaio al marzo del ’23, non pubblicò nessun articolo in giornali o riviste. Poi un fatto nuovo riaccese la sua attenzione: l’invito a collaborare al quotidiano Il Popolo, che sarebbe stato varato di lì a poco. La direzione era stata assunta da Giuseppe Donati, discepolo e amico di Salvemini e cattolico democratico vicino al pensiero più profondo di don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito Popolare Italiano. Intermediario della proposta di Donati fu Novello Papafava dei Carraresi, collaboratore dell’Unità salveminiana su argomenti militari e della Rivoluzione liberale di Piero Gobetti. Con una lettera del 29 marzo 1923 il quasi cinquantenne Salvemini diede l’assenso al giornalista trentaquattrenne in questi termini: «Caro Donati, Novello Papafava mi ha portato la tua offerta di collaborazione al “Popolo”. Avevo detto più volte a me stesso che in Italia non c’è nulla da fare per un uomo come me nel campo della politica. Ma il tuo invito mi ha fatto rizzare le orecchie: per quanto invecchiato e stanco, sono sempre un cavallo di buona razza, che s’impenna all’odore della polvere. Ho fiducia personalmente in te; e penso che forse riuscirai a dare alla parte migliore del tuo partito un orientamento quale tu desideri ed io auguro. Ti mando, dunque, un primo articolo di politica estera. […] Non firmo col mio nome: 1) perché il mio nome sarebbe un peso pel giornale; 2) perché non sono popolare neanche di sinistra, e non voglio che nasca nessun equivoco sui miei connotati. Sono tuo amico; ho fede in te; sento il dovere di aiutarti; do le mie idee a chi vuole: ma rimango sempre me stesso, selvaggio, fuori di ogni partito». Fatta eccezione per le idee religiose e le finalità programmatiche dei clericali, Salvemini nutriva simpatia per la sinistra democratica del Partito Popolare Italiano e vivo affetto per il suo discepolo, ma a tutti gli effetti politicamente ormai era un outsider. © Riproduzione riservata