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Chiudere i centri Sprar farà aumentare lo sfruttamento lavorativo dei migranti
15 ottobre 2018

Già le vicende della Grande Guerra insegnano a discernere gli interessi personali, in nome dei quali si agisce, dalle motivazioni rese pubbliche per le scelte politiche che si attuano. In esattamente cent’anni non è cambiato nulla. Palesemente volto ad una maggiore sicurezza e alla garanzia della vita dei migranti che approdano in Italia, con limitazione di potere delle associazioni che si arricchiscono dall’arrivo degli extracomunitari, il decreto Salvini, di fatto, propugna ben altro ed è importante carpirne il vero obiettivo. Ad esser promosso dal ministro degli Interni è un ampliamento della prima accoglienza curata dalla Prefettura con conseguente riduzione significativa del ruolo dei centri SPRAR, che potrebbero accogliere soltanto i rifugiati e non più i richiedenti asilo e i titolari di protezione umanitaria, per i quali, invece, entrerebbe in vigore il permesso “Casi speciali”. Ma i veri casi speciali sono le testimonianze di chi opera nei centri SPRAR o di chi ne usufruisce, grazie alle quali è possibile comprendere le conseguenze di un provvedimento pericoloso per il nostro Paese. «Senza i centri SPRAR noi stranieri non riusciremmo mai ad integrarci nella realtà italiana. Io sono stato nel C.A.S. di Foggia per sette mesi e sono stati sette mesi della mia vita in cui ho brancolato nel buio. Mi hanno dato da mangiare, sì, ma non mi hanno insegnato nulla, non mi hanno accompagnato nell’integrazione, non ero consapevole di niente. Avevo persino paura ad uscire perché non sapevo che fare. Solo grazie al centro SPRAR di Molfetta, dove sono approdato più tardi, sto imparando ad inserirmi nel mondo circostante. Qui mi seguono, mi insegnano a distinguere cosa è giusto da ciò che è sbagliato. Mi sento accolto e finalmente davvero libero». Risulta assiomatico dalle parole di Kalusha che Hegel avesse i suoi buoni motivi nell’affermare che ciò che appare il limite della libertà è in realtà ciò che la legittima appieno. Perché la vera libertà non consiste nell’essere accolti e lasciati per chissà quanto tempo nei centri di accoglienza standard, quelli affidati alla gestione della Prefettura, spesso situati in strutture marginali rispetto al cuore della città e in cui agli extracomunitari vengono dati vitto e alloggio, ma nient’altro. La vera libertà è conoscere, è l’opportunità di fare qualcosa, di essere qualcuno, o in questo caso, di ridiventarlo. E come tale, la vera libertà, ancora una volta tornando alla filosofia hegeliana, può sussistere soltanto nella dimensione del diritto, che è esattamente quella che i centri di accoglienza SPRAR hanno lo scopo di garantire ai migranti che decidono di adempiere ad un patto con l’associazione stessa. «Il nostro è un impegno collettivo, da parte di personale qualificato, per la piena integrazione degli stranieri nel Paese. Un’integrazione di tipo diffuso, ovvero che si disloca in più strutture, e che muove i primi passi in ambito sociale, ma che non si arresta finché non garantisce autonomia e indipendenza anche dal punto di vista abitativo ed economico. I centri ad accoglienza diffusa sono anche il perno che placa le tensioni sociali, conferendo ai migranti piena dignità di vita, passo dopo passo, e alla gente sicurezza sull’identità di queste persone» dichiara Marcella Chiapperino, coordinatrice SPRAR della cooperativa sociale Oasi 2, preoccupata anche per lo sfruttamento lavorativo cui andrebbero incontro i migranti se allo SPRAR si dovessero effettivamente legare le mani. «Se il taglio netto venisse applicato agli SPRAR non avremmo più il potere di tutelare quelli che sono non i privilegi, ma i diritti degli extracomunitari in quanto esseri umani» afferma Enrica d’Acció, responsabile della comunicazione della cooperativa Oasi 2. Ma l’intenzione degli impiegati presso lo SPRAR di Molfetta è chiara: una protesta sinergica per farsi valere e per far valere quel tentativo di costruzione di alternative che rischia di essere soppresso dalla distruzione. Una distruzione che, in primis, riguarderebbe i migranti stessi, i cui sogni non sono compatibili con il decreto Salvini. «Mi piacerebbe avere una famiglia, dei figli, sarebbe un sogno. Sto facendo il tirocinio per designer presso il negozio “Cubo” di Molfetta e fra qualche anno mi immagino ancora in Italia, spero con un lavoro vero e proprio » racconta Kalusha. «L’Italia mi piace, voglio restare qui, al momento ho una vita tranquilla, normale» dice Farhan. L’amarezza più grande, come spiega Onofrio Depalma, responsabile del centro di Molfetta, è quella di “non poter dare loro certezze, dover farli vivere in una sorta di terra di mezzo”. La stessa in cui ci troviamo anche noi italiani nel momento in cui abbiamo di fronte la scelta: pro o contro il decreto? Quella scelta che dovremmo prendere cominciando a renderci conto che dall’altra parte del mondo non arrivano schiavi da manipolare, ma vite umane da rispettare. Perché, come affermava Sallustio e come andrebbe ricordato a Salvini, “è meglio essere buoni piuttosto che sembrarlo”. © Riproduzione riservata

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