Capelli, significato culturale sociologico, religioso antropologico
Dall’antica Roma ai nostri giorni (la lotta delle donne iraniane)
In natura, i capelli svolgono diverse funzioni: una funzione percettiva sensoriale, una funzione protettiva da eventuali traumi e una di termoregolazione e infine, dal punto di vista della socialità, svolgono una funzione di fondamentale importanza come linguaggio del corpo, simbolo di forza e sensualità, oltre ad avere la facoltà di esprimere un’infinità di significati in ambito culturale, religioso, sociologico e antropologico. La tradizione di avvolgere il capo in un velo è antichissima, e documentata da oltre tre millenni in area mesopotamica prima, poi indo-iranica. Fin dall’inizio, velarsi il capo ha assunto una molteplicità di significati piuttosto diversificati, dal riconoscimento di uno stato di superiorità a quella di simbolo di una impronta sociale, sia nella sfera del sacro e sia in ambito profano. Nel mondo classico la sua esistenza si riscontra comunemente nella pratica religiosa oltre che nella vita di tutti i giorni. Ci basta guardare alle raffigurazioni delle divinità o dei personaggi mitologici per accorgerci che essi sono quasi sempre raffigurati con un velo che ricopre testa e spalle. A Roma il flamen dialis, il sacerdote incaricato del culto di Giove, aveva l’obbligo di indossare sempre un copricapo, l’apex, salvo quando stava nella sua abitazione. Il cristianesimo continua questa tradizione dell’uso del velo, riservandolo soprattutto alle donne. Nel Nuovo Testamento (1Cor 1,3-17) rinveniamo una prescrizione di San Paolo: “Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli!”. Nel Medioevo la chioma ha un legame con la magia e la superstizione. I capelli infatti erano considerati un’estensione esterna e materiale dell’anima. Per questo motivo venivano usati nelle pozioni magiche. Di uso comune era anche bruciare i capelli caduti o tagliati perché, se capitati nelle mani sbagliate, potevano essere la base per malefici o malocchio. Tutta questa superstizione e la chiusura del Cristianesimo di quei tempi, fece sì che valorizzare i capelli con acconciature sfarzose fosse considerato peccaminoso. Il cristianesimo, fino a non molto tempo fa, ha sempre raffigurato le donne (la Madonna, le sante, e altro) con il capo velato; le stesse suore hanno indossato e indossano il velo nelle più varie forme e sagome. D’altra parte tut? ti noi conoscono bene l’usanza ampiamente tramandata, e tuttora diffusa, soprattutto nella cultura popolare del nostro Sud, da parte della donne anziane di portare il velo. Il Corano ha un riferimento al velo (Sura 24,31 e anche nell’ebraismo vi è obbligo di coprirsi il capo all’interno della sinagoga. Nelle società contemporanee l’obbligo di coprirsi la testa non è più considerato accettabile, in quanto contrasta con diritti fondamentali, quali la parità tra uomo e donna, che la maggioranza delle religioni non accetta, in quanto attribuiscono al genere femminile un ruolo subalterno (si pensi alle limitazioni nell’accesso al sacerdozio, per esempio). Proprio per questo motivo, però, è difficile comprendere quando una donna decide volontariamente di coprirsi il capo, e quando invece tale abbigliamento le viene imposto dal condizionamento familiare e sociale: in entrambi i casi si rischia di mettere a repentaglio un fondamento della democrazia, la libertà di coscienza. “Capelli al vento”, per essere presenti con le donne iraniane e lottare con loro, è un progetto ideato e curata da Antje Stehn e che si deve intendere come proseguimento di “Rucksack a Global Poetry Patchwork” che si è concluso dopo due anni di attività. Il Global Poetry Patchwork è un progetto di installazione artistica che si è tenuta nel settembre 2020 al Piccolo Museo della Poesia, a Piacenza. Si componeva di due macro-opere: un’installazione caratterizzata da una grande borsa, lo zainetto, fatto di bustine di tè essiccate e un’esposizione di brevi poesie, che sono confluite nell’archivio del museo al termine della mostra. Una installazione audio offre al pubblico la possibilità di ascoltare le voci dei poeti che recitano nella loro lingua madre. L’opera pone un gran numero di persone, luoghi, visioni, linguaggi, sottolineando il valore della vi-cinanza, così significativo in questo momento storico segnato dalla lontananza e dal confinamento, dall’acuta precarietà della rete umana. Le bustine di tè hanno una lunga storia che risale al XVIII secolo, quando i cinesi iniziarono a cucire piccoli sacchetti quadrati per conservare meglio l’aroma dei diversi tè. È da allora che le bustine di tè continuano ad essere uno dei contenitori più piccoli che usiamo e troviamo in ogni casa e possono essere associate a dei marsupi che sono stati tra i primi strumenti utilizzati da donne e uomini per trasportare oggetti e ricordi. La bustina di tè è cuore di un incontro culturale e lo zaino la traccia del nostro legame con la natura e la migrazione. A tutto questo si affianca la poesia che ci parla dando uno sguardo diverso sul mondo, di un’alternativa al monopolio generato da un’unica storia e ci invita ad essere al fianco della lotta delle donne iraniane, al coraggio delle donne iraniane e alla loro drammatica lotta che ha avuto inizio dopo l’uccisione di Mahsa Amini, ragazza curda di 22 anni picchiata a morte dalla polizia morale perché non indossava bene il velo, da cui fuoriusciva una ciocca di capelli. Le donne iraniane hanno protestato tagliandosi i capelli e bruciando gli hijab nelle piazze e sulle strade. Il simbolo del taglio dei capelli, già tradizionale nelle cerimonie di lutto, è diventato il gesto di solidarietà per Mahsa Amini. Il 12 marzo, l’installazione, le poesie e i poeti di “Capelli al vento” saranno ospitati al Piccolo Museo della Poesia, Chiesa di San Cristoforo, a Piacenza. Il 1° aprile a Roma al Mitreoiside e sono anche in programma eventi on line organizzati nei diversi Paesi dei gruppi sostenitori, tra cui, USA, India. Marocco, Irlanda. In maggio l’istallazione farà parte di due mostre collettive a Milano e a Piacenza. Il titolo dell’opera “Capelli al vento”, ci riconduce a uno schema narrativo frequente nella poesia tedesca. Fu coniato all’inizio dell’Ottocento dalla prima poeta tedesca, Annette von Droste-Hülshoff, nella poesia Am Turme, dove l’autrice si scioglie i capelli e come una menade li libera al vento. “Ferma sull’alto balcone della torre avvolta dal grido dello storno come una Menade lascio il vento di tempesta scompigliarmi i capelli che ha disciolti; oh compagno selvaggio, o garzon folle, vorrei abbracciarti forte e a due passi dall’abisso- fibra a fibra – lottare con te per la vita e per la morte!” (“La Torre”) Un atto considerato ribelle, inaccettabile ai suoi tempi. Questo topos è stato ripreso da Ingeborg Bachmann in “Il canto di un’isola”. Quando uno parte, deve gettare in mare il cappello pieno di conchiglie raccolte durante l’estate, e andarsene con i capelli al vento. Deve scagliare in mare la tavola apparecchiata per l’amato, deve versare in mare il vino avanzato nel bicchiere, dare ai pesci il suo pane e mescolare al mare una goccia di sangue. © Riproduzione riservata