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“Basta con le tasse”, minacciano la “marcia su Molfetta” gli imprenditori della zona industriale “Scenderemo in piazza con i nostri dipendenti e le nostre famiglie” dice il presidente dell'associazione dei datori di lavoro. Domani una conferenza stampa per illustrare la prima iniziativa pubblica
10 settembre 2014

MOLFETTA – Marcia su Molfetta. E’ questa la minaccia dell’Associazione Imprenditori dell’area PIP e zona ASI di Molfetta, una delle più ricche e floride del territorio pugliese. In un comunicato firmato dal presidente Pasquale d’Addato si dice che per questa prima iniziativa pubblica «in 10mila si preparano ad attraversare la città per sottolineare lo stato di assoluta difficoltà in cui le aziende si trovano ad operare».

Domani, giovedì 11 settembre, alle 9.30, nella sala convegni di Mister Chef, in area artigianale, ci sarà una conferenza stampa dell’associazione. Il presidente, dottor Pasquale d’Addato, illustrerà le ragioni della protesta che, muovendo da Molfetta, intende coinvolgere pure le aziende che operano nelle altre zone industriali ma anche le associazioni e gli imprenditori della ristorazione, del commercio, i rappresentanti dell’artigianato e le sigla sindacali. «Se si bloccano gli stipendi e si tassano, oltre ogni misura gli imprenditori, si blocca tutto. Si blocca l’economia – dicono gli imprenditori che vogliono coinvolgere nella protesta anche i dipendenti (un po’ come la marca dei 40mila quadri della Fiat di Torino di 34 anni fa nell’ottobre 1980, ndr) -. L’associazione, ad oggi, raggruppa circa 100 imprese per un numero di parecchie migliaia di lavoratori».
Per ora non si registra nessuna reazione dei sindacati a questa insolita protesta che, per timore della crisi delle aziende vede i lavoratori - (più tartassati perché dipendenti e quindi soggetti al prelievo fiscale diretto, oltre a subire le imposte indirette con bassi redditi fermi da anni) - difendere i datori di lavoro e chiedere che questi ultimi paghino meno tasse.
Il problema dell’imposizione fiscale va visto nella giusta dimensione, da un lato i governi berlusconiani di centrodestra di questi anni hanno preferito scaricare sugli Enti locali, soprattutto i Comuni, lo scomodo compito di tassare i cittadini (la demagogica e folle scelta di togliere l’Imu sulla prima casa, con i pasticci che ne sono seguiti). Dall’altro è stata tollerata l’evasione fiscale, che, insieme al debito pubblico, è il maggiore cancro del nostro Paese. Oggi a Roma, come a Molfetta, dopo anni di inibizioni operate dai governi dell’epoca, che, però, hanno sempre favorito gli imprenditori, facendo saltare l’equilibrio della distribuzione della ricchezza, il tappo è saltato e si vuole rimediare in un giorno ai danni provocati in anni di spesa pubblica allegra e di evasione, favorita dai governi con gli assurdi scudi fiscali e condoni del peggior ministro dell’economia degli ultimi anni: Giulio Tremonti.
In realtà la politica degli anni scorsi ha cancellato, di fatto, il ceto medio, che è quello che sostiene l’economia, attraverso i consumi e gli acquisti a rate mensili. Oggi con l’impossibilità di comode, ma assurde, svalutazioni della moneta, come avveniva prima e con l’arrivo dell’euro, non controllato volutamente dai governi, favorendo più i commercianti che i consumatori, raddoppiando di fatto i prezzi delle merci, i lavoratori dipendenti (tra l’altro, sempre più precari) si ritrovano stipendi bloccati e non arrivano alla fine del mese, perciò non riescono a risparmiare e nemmeno a spendere. Insomma, i prezzi sono cresciuti più dei salari e il risultato è quello dell’attuale recessione. E’ vero, c’è anche il costo del lavoro che è alto, ma questo dipende sempre dall’evasione fiscale, che costringe i governi ad aumentare il prelievo da fonti certe come i salari, col risultato che l’imprenditore paga più tasse, mentre il lavoratore si trova con una busta paga sempre ferma e insufficiente ad affrontare l’accresciuto costo della vita.
La verità amara, che va detta è anche quella che in questi anni molti imprenditori italiani hanno preferito fare rendita e non investire in ricerca e innovazione. Oggi si trovano a non essere competitivi e a subire il peso della crisi, che certo non si risolve con una marcia o una protesta di piazza. Fare l’imprenditore significa investire capitali di rischio, non sperare solo nell’assistenzialismo e nei contributi statali, in generose finanziarie o, in extrema ratio, scegliere la comoda strada dell’evasione fiscale, molte volte indotta da un peso della tassazione che è diventato eccessivo e penalizzante per le imprese.

Siamo meno competitivi anche perché il nostro tessuto produttivo, in un’economia globalizzata, è fatto di troppe piccole imprese (il numero medio di addetti per azienda è di 8, contro gli 11 della Spagna, i 14 della Francia e i 35 della Germania), i pochi investimenti in innovazione e ricerca sono il frutto anche del predominio del capitalismo familiare, esiste un scarsa concorrenza nei servizi, con una pressione fiscale da record, a cui si aggiungono incertezze sul piano normativo e sui tempi dei giudizi civili e una debolezza della formazione. Le mancate riforme, poi, chiudono il cerchio.
Oggi la crisi la pagano tutti, proprio per questi errori. Comunque, dopo anni di silenzio e di volontaria sottomissione ai governi, con aziende che chiudono ogni giorno e migliaia di lavoratori in cassa integrazione o disoccupati, una reazione, dopo un lungo periodo di comodo silenzio, è un fatto positivo. Ma attenzione a non sbagliare bersaglio o a non farsi strumentalizzare politicamente, proprio da coloro che sono stati gli artefici dell’attuale congiuntura economica: il rischio sarebbe quello di aggravare la crisi, che non si risolve certo con una marcia sul Palazzo. La protesta fine a se stessa non paga. La protesta ragionata e i tavoli di confronto con chi governa, sono più utili. Le lezioni del passato dovrebbero aver insegnato qualcosa. Tra l'altro, la storia insegna, che quando gli imprenditori si sono messi a fare politica o a cavalcare la protesta politica, hanno sempre provocato pasticci e danni sociali.
Ma per venire fuori dalla recessione, ognuno deve rinunciare a qualcosa. I sacrifici non possono stare solo da una parte. La ricchezza va redistribuita: fino a che non si capirà questo concetto elementare, l’economia e la crescita non ripartiranno. Va bandito un certo egoismo imprenditoriale, e chiesta ai lavoratori una maggiore produttività. Ma per fare questo occorre ridurre la pressione fiscale, attraverso un’imposizione progressiva, che riequilibri il sistema, favorendo quella redistribuzione che può rilanciare i consumi.
A Molfetta un tentativo in questo senso si sta facendo, con l’attuale manovra fiscale: occorre recuperare risorse, dopo anni di bilanci disastrosi, ma è necessaria soprattutto una presa di coscienza da parte degli imprenditori e dei lavoratori: ognuno deve fare la sua parte, senza comodi alibi e senza scaricare le colpe sugli altri. Il gioco dello scarica barile e della ricerca del capro espiatorio ad ogni costo non paga. Le lezioni del passato dovrebbero aver insegnato qualcosa.

© Riproduzione riservata

Autore: Felice de Sanctis
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