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Al pensarci è da divenir matto Lettere dalla Grande guerra
15 marzo 2015

Negli ultimi tempi, traendo anche occasione dalla prossima ricorrenza del centenario dell’ entrata in guerra dell’Italia, gli studi sul primo conflitto mondiale, già copiosissimi, hanno conosciuto un notevole risveglio. Partendo dall’ipotesi della fondamentale importanza per la comprensione della storia contemporanea costituita dalla Grande Guerra, come decisivo fattore di trasformazione e sconvolgimento storico, essi ne hanno esaminato i vari aspetti, da un punto di vista militare, politico, economico-sociale, culturale e così via. In particolare, uno dei campi d’ indagine più coltivati, è stato quello dell’ analisi della realtà quotidiana, dei comportamenti collettivi, e della mentalità, sia della popolazione civile, che dei soldati al fronte. Si sono quindi moltiplicate le iniziative e le ricerche centrate sulla ricostruzione del quotidiano vissuto al fronte, e sull’ impatto della guerra sugli atteggiamenti e sulla psicologia dei fanti. I lavori ripercorrono, attraverso il recupero spesso fortuito di epistolari, diari, cartelle cliniche degli ospedali psichiatrici, archivi militari, il modo di vivere, sentire, resistere e morire dei protagonisti, rompendo nettamente l’agiografia patriottica del passato, ma cercando, d’ altra parte, di non ricadere in una retorica disfattista e pacifista altrettanto mistificante. Oltre agli epistolari, la gran parte dei quali soffre purtroppo del passaggio attraverso la censura, o della stessa autocensura attuata dai mittenti, sia per sfuggire al controllo e raggiungere il destinatario, sia per non allarmarlo, una fonte di grandissimo interesse è offerta dai diari di guerra, quasi sempre rivolti a se stessi, scritti durante il conflitto, magari tra un assalto e l’ altro, e caratterizzati in gran parte da un linguaggio scarno e da un contenuto spesso di altissimo livello drammatico. Quando stilati da soldati semplici semi- analfabeti, sempre illetterati, queste preziose e rare testimonianze ci permettono di conoscere una storia “dal basso” della vita in trincea, o della prigionia. Un discorso diverso va fatto per la diaristica colta, attribuibile in massima parte agli ufficiali, ma non ascrivibile in toto ad una entusiastica adesione, o peggio esaltazione, della guerra. I mesi che precedettero il “maggio radioso” assistettero, rispetto al conflitto, al cozzo violento di movimenti contrapposti che, troppo riduttivamente si dividono tradizionalmente in neutralisti ed interventisti. Tra la spazzatura guerrafondaia di Marinetti e la sua “guerra sola igiene del mondo”, e il pacifismo radicale ed anti imperialista dei socialisti di sinistra e degli anarchici, vi furono anche posizioni intermedie sostenute da motivazioni realistiche e mediatrici. Ricordiamo soltanto il “né aderire, né sabotare” dei socialisti riformisti e l’interventismo democratico di un Salvemini, che riteneva, o meglio sperava, che la guerra e la vittoria contro gli Imperi Centrali avrebbero costituito il volano per una maggiore democratizzazione dell’Europa e per una risoluzione più equa e negoziata delle controversie etniche e territoriali. Ideali, interessi economici e finanziari, speculazioni politiche, tumulti e scontri di piazza sconvolsero per mesi il Paese e lasciarono tracce nelle testimonianze dei protagonisti che vissero il dramma “in prima linea”. Come piccolo contributo alla comprensione di quella tragica vicenda, pubblicherò alcune lettere inedite che offrono una campionatura di diverse tipologie psicologiche e di stati d’animo, con l’ovvia premessa che la mole di testimonianze scritte che si sono salvate e che stanno emergendo grazie anche alle più recenti ricerche, rivelano una straordinaria varietà e complessità, irriducibili a categorie predefinite. Per ovvi motivi di spazio, inoltre, riporterò i brani più significativi delle missive, in relazione all’intento di queste note. Nel 1919 Tommaso Fiore, insigne storico della letteratura, e futuro antifascista, entrato nell’agone politico, fu accusato dai suoi avversari di essersi arreso a Caporetto senza combattere, mentre serviva al fronte come ufficiale di artiglieria. Chiese allora ad alcuni suoi ex-commilitoni di inviare alcune lettere in sua difesa, che testimoniassero pubblicamente la verità dei fatti. Il 17 agosto1919 Giovanni Leschiutta gli scriva da Saracena, in Calabria, dove lavora in una ditta di legnami: «In quanto alla calunia che Lei non sia comportato da valoroso durante la guerra certo deve venire da persone che invita l’oro non hanno fatto altro mestiere che quello del difamatore. del resto tanto io come tutti quelli che fummo con Lei siamo pronti a provare il contrario Ora Signor proffesore dovrà ricordarsi che io nella mia brutale franchezza ne diceva qualcuna di giuste si ricordi delle parole che Lei mi disse alla Stazione Austriaca di Asling la notte del 18 Novembre mentre s’aspettava il treno che doveva condurci in quell’inferno che fu la nostra prigionia. Nella sua disperazione ebbe a manifestare delle idee suicide io gli feci conoscere che aveva ancora una famiglia da pensare e Lei mi rispose cos’è la famiglia in confronto dell’Italia? Io gli risposi che purtroppo la patria poco si cura dei suoi figli. Io mi partii dall’America sacrificai tutti i miei interesse sparsii il mio sangue per la Patria e credo d’aver fatto il mio dovere fui proposto per la medaglia d’argente ebbene al mio ritorno in patria mi sentii dire che noi prigioniere abbiamo tradito l’italia come vede queste sono le ricompense ebbene se fossi ora me ne starei dove ero sicuro e che vada a combattere chi ha degli interessi da difendere non io povero proletario che mi tocca girare il mondo per guadagnarmi un tozzo di pane Non una parola di commento a questa splendida testimonianza. Il 2 settembre 1917 Vincenzo, non conosciamo il suo cognome, scrive dalla “zona di guerra” a sua moglie, Romana Campanile, residente a Mola di Bari: “È inutile descrivere dei patimenti della vita dico solo che siamo stati in combattimento. Ora ci troviamo qui in dietro e già anno incominciato a dire che fra pochi giorni si tornerà di nuovo, al pensarci e da venir matto, ma io mi fida a quella Vergine Addolorata di aiutarmi da tutti i pericoli, ma passeranno un poco di giorni per tornarci, perché bisogna che devono completare il reggimento che quasi di una metà distrutto (per non dire tutto) Parlando di quel povero disgraziato di Indrona lui fu tradito da un austriaco che mentre si trovava in testa alla sua compagnia e avevamo gia occupato la posizione facendo alcuno prigionieri, uno di essi si era già disarmato, in un atto si piega per terra prende il fucile e gli tira un colpo ferendolo al quore, rimase morto senza pronunziare alcuna parola, non potresti credere il dispiacere di tutti i suoi soldati e ufficiali come pure il comandante del battaglione e quel giorno tutti i pochi prigionieri che si fecero gli fecero tutti fare la medesima morte, per il forte dispiacere di quel povero disgraziato.” Il vile gesto dell’austriaco, quando la lotta era già terminata, ha scatenato la carneficina. Una ennesima tragedia di trincea. Ma cambiamo totalmente dimensione. L’8 dicembre 1915, il giovanissimo artigliere, Campregnani Giovanni, dalla solita “zona di guerra” scrive a Bari a Piero Delfino Pesce, giornalista, editore, fervente repubblicano di matrice mazziniana, esponente di spicco della cultura e dell’interventismo democratico pugliesi: “Or sono al goniometro: più in alto, ma lontano dal nemico. Ho sparato sinora dodici colpi di fucile. Non ho fatto bersaglio. Sarà presto. Come Ella vede, la in deprecabile ventura ha tutta la mia serenità che sorride alla lotta che domani s’aprirà. Questa nostra nazione ancor mezzo assonnata incomincia a udir il ritmo dell’avvenire. Io m’arrischio pensare che questa guerra è pur una ricognizione nell’anima di ognuno: un’autoesame: gli uomini, gli Italiani in specie, saran portati a far qualcosa di ciò che vogliono, ad attuar qualcosa che non sia quel che non vogliono, a non imprecar fanciullescamente a ciò che è frutto della loro fatica quando l’abbian voluta. E chiudo confessandomi: quest’anima mia mai presentì della vita la morte precoce, in ogni ora dolce e terribile di questa guerra ho sentito che anch’io umile non eccessivamente, ma modesto, debbo vivere per le lotte future. Dall’osservatorio di batteria, 8 dicembre. Suo Giovannino”. Non sappiamo se Giovannino sopravvisse alla strage, e, se si, con che animo affrontò quel rinnovamento ideale che riteneva fosse necessario alla nazione, e potesse raggiungersi grazie anche alla prova suprema della guerra, o se ne ebbe, invece, una atroce delusione. La lettura di queste tre lettere, non può che confermare un dato ormai acquisito della storiografia: il conflitto fu un crogiuolo infuocato, nel quale confluirono interessi, speranze, disillusioni e rancori di un’intera nazione. Vittorio Veneto doveva placare il bagno di sangue ma le piazze erano già pronte ai tumulti del lungo dopoguerra. Sulle cause del conflitto si sono consumati fiumi di inchiostro, con opinioni diverse e spesso aspramente contrapposte. Una delle più accreditate lo fa derivare dalla lotta tra il formidabile espansionismo del capitale finanziario tedesco, con il conseguente riarmo e quello ormai consolidato di Francia e Inghilterra. L’attentato di Sarajevo sarebbe stato soltanto una miccia in un deposito di esplosivi. È in sostanza la tesi leninista degli imperialismi contrapposti che peraltro, seppure mitigata, fu accolta anche da una parte della storiografia liberale. Le reali ragioni del conflitto sarebbero state occultate da una moltitudine ben orchestrata di sovrastrutture culturali di vario genere a cominciare, per quanto ci riguarda, dalle buffonate futuriste, dai violenti sproloqui (e dai debiti subito saldati) del Vate di Pescara, ed anche, purtroppo, dalla buon fede dell’interventismo democratico. Ma ci fu anche chi, meditando sul grande massacro, ritenne di trarne conferme alla teoria generale sulle motivazioni primarie del comportamento umano, individualisticamente ed antropologicamente inteso, che andava elaborando sin dai primi del novecento. Quell’uomo fu Sigmund Freud. Secondo lui la civiltà umana e le sue istituzioni, analiticamente decifrate e considerate come somma di innumerevoli atomizzazioni nevrotiche, si reggono su di un equilibrio precario, messo perpetuamente a rischio da conflitti inconsci interni, da sentimenti di colpa da essi prodotti e dall’aggressività distruttiva che li accompagna. La morte, non biologica ma psichica, risulta così inscritta ineluttabilmente al cuore della nostra vita, insieme ai costi devastanti delle repressioni pulsionali, alla violenza che ne deriva, ai limiti delle sublimazioni adottate a difesa. La Grande Guerra, come tutte le guerre, è soltanto un’ennesima conferma, numericamente maggiore, ma qualitativamente identica, della immutabilità del nostro destino. Nel 1929, il grande pensatore, concludeva con queste parole il suo “Disagio nella civiltà”, vero e proprio epitaffio apposto sulle speranze di un mondo di progresso e di pace: «Per i motivi più vari, è ben lungi da me l’idea di formulare una valutazione della civiltà umana. Ho cercato di difendermi dall’entusiastico pregiudizio secondo il quale la nostra civiltà sarebbe quanto di più prezioso possediamo o possiamo raggiungere e il suo percorso debba condurci necessariamente verso vette di inimmaginabile perfezione. Non mi riesce difficile essere imparziale, perché di queste cose so molto poco, e con certezza solo che i giudizi di valore degli esseri umani sono incanalati esclusivamente dai loro desideri di felicità, e sono quindi un tentativo di suffragare le loro illusioni con argomenti. Così mi manca il coraggio di atteggiarmi a profeta dinnanzi ai miei simili, e accetto la critica di non saper recare loro conforto: perché in fondo è questo che tutti chiedono, i più impetuosi rivoluzionari non meno appassionatamente dei più probi credenti. A me pare che la questione vitale del genere umano sia se e in che misura l’evoluzione della civiltà sarà in grado di dominare i perturbamenti della vita collettiva causati dalle pulsioni aggressive e autodistruttive dell’uomo. Da questo punto di vista l’epoca contemporanea merita forse un interessa particolare. Nel dominio delle forze della natura gli esseri umani sono ormai arrivati ad un tale livello che, grazie ad esse, potrebbero facilmente sterminarsi a vicenda. Lo sanno, e questo spiega buona parte della loro attuale inquietudine, della loro infelicità, del loro stato d’animo angosciato. E ora dobbiamo aspettarci che l’altra “potenza celeste”, l’eterno Eros, faccia uno sforzo per imporsi nella lotta contro il suo altrettanto immortale avversario, Tànatos. Ma chi può prevedere quale sarà l’esito, e se sarà felice».

Autore: Ignazio Pansini
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