Quanto è accaduto a Molfetta quest'anno al corteo organizzato dall'Amministrazione comunale per la festa della Liberazione merita qualche rifl essione. La questione che si pone è quella relativa alla pari dignità dei combattenti che si sono affrontati nel corso dei venti mesi di guerra civile che hanno insanguinato l'Italia centro-settentrionale tra il settembre del 1943 e l'aprile del 1945. È giusto sostenere che i morti “sono tutti uguali” e che, quindi, come hanno scritto i giovani di AN e del “Circolo” (associazione riconducibile a Forza Italia) in uno striscione esibito al corteo, bisogna tributare “onore a tutti i caduti”? Tale concetto, del resto, è stato condiviso dal Sindaco nel suo discorso ed era stato già adombrato nel manifesto commemorativo a sua fi rma. È doveroso premettere che non è certo in discussione la “pietas” che si deve provare nei confronti di tutti i defunti e, in particolare, nei confronti di coloro i quali sono stati travolti da grandiosi avvenimenti storici ai quali hanno partecipato da umili comparse, senza infl uenzarli o concorrere a determinarli in alcun modo. La questione è un'altra. Riguarda le basi morali, i valori di riferimento cui attingevano e di cui si nutrivano le due parti in confl itto. Appare utile richiamare brevemente il contesto e gli antefatti del confl itto stesso e il clima in cui nasce e si dispiega. Il regime fascista, che aveva soppresso tutte le libertà politiche e le istituzioni liberali, perseguitando gli oppositori, eliminando ogni parvenza di pluralismo politico e culturale fi no a introdurre un'abominevole legislazione “razziale”, in politica estera si era distinto per la sua impostazione aggressiva, militarista, imperialista e colonialista. In sei-sette anni l'Italia aveva aggredito la Spagna, l'Etiopia, l'Albania, la Francia, l'Inghilterra, la Grecia, la Iugoslavia e l'Unione Sovietica. Mussolini aveva infi ne dichiarato guerra agli Stati Uniti. Nei Balcani la politica di occupazione fu talmente dura, violenta e sanguinaria che nella ex Iugoslavia era diffusa l'opinione, divenuta senso comune, secondo la quale “gli italiani sono diventati come i tedeschi”. Quando l'Italia centro-settentrionale venne occupata dai tedeschi dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, i fascisti, volatilizzatisi dopo la caduta del Regime, si riorganizzarono restaurando la dittatura del partito unico sulla punta delle baionette tedesche. Venne fondata la Repubblica sociale italiana, con a capo Mussolini, frattanto liberato con un blitz germanico dalla prigionia sul Gran Sasso. Il primo atto fu il bando di reclutamento obbligatorio nel neonato esercito “repubblicano”, con a capo il maresciallo Rodolfo Graziani. Questi era un noto criminale di guerra, che si era distinto per le sue azioni delittuose in Libia e in Etiopia, tanto da essere soprannominato “il macellaio”. Peraltro, il suo indubbio talento in materia di massacri, impiccagioni, fucilazioni in massa, gasamenti e deportazioni, era pari solo alla sua incompetenza sotto il profi lo militare. All'inizio del 1941, a Sidi el Barrani, era riuscito a farsi sbaragliare da un'armata inglese di 30.000 uomini, mentre lui ne disponeva di 150.000, lasciando nelle mani del nemico più di 100.000 prigionieri. Il bando di Graziani costrinse i giovani italiani e i militari sbandati dopo l'8 settembre a una drastica scelta: arruolarsi nelle forze armate della Repubblica di Salò o darsi alla macchia, in quanto la renitenza alla leva era punita con la fucilazione. Simile dilemma si pose anche per gli oltre 600.000 militari internati in Germania in quanto catturati dopo l'8 settembre, ma ben pochi scelsero la RSI. Il 90% preferì le durissime condizioni di prigionia in Germania. Il personale politico-militare dirigente della RSI era costituito dal nucleo più estremista, reazionario e fi lonazista del fascismo. Va ricordato che i fascisti repubblichini collaborarono attivamente alla cattura e alla deportazione di circa 30.000 persone politicamente avverse al nazifascismo, e di non meno di 10.000 ebrei. Questi sventurati, condotti nel campo di concentramento di Fossoli nei pressi di Reggio Emilia, vennero consegnati ai nazisti e avviati allo sterminio ad Auschwitz o in altri campi. L'80% di questi italiani non fece più ritorno. Le motivazioni di chi prese le armi contro i nazifascisti traevano ispirazione dagli ideali e dai valori democratici della Carta delle Nazioni Unite del 1942, che aveva affermato la necessità di spazzare via il fascismo, il razzismo, il militarismo, l'imperialismo, l'oppressione dell'uomo sull'uomo e ogni idea di supremazia di una nazione sulle altre, propugnando l'affermazione di un ordine internazionale basato sulla pace e la giustizia tra le nazioni. Nello specifi co del caso italiano vi era altresì l'esigenza di riscattare l'onore del Paese, non attendendo passivamente l'inevitabile sconfi tta della Germania, da un recentissimo passato di attiva collaborazione al tentativo di instaurare nel mondo quel Nuovo Ordine hitleriano che negava completamente non solo i valori della Rivoluzione francese su cui si era edifi - cato l'Occidente contemporaneo, ma fi nanche l'essenza dei valori del Cristianesimo, per instaurare la barbarie dell'arbitrio assoluto del più forte, della “razza dei dominatori” (Herrenvolk) nei confronti dei cosiddetti “sottouomini” (Untermenschen). Gli aderenti alla Repubblica di Salò, invece (e qui non parlo, ovviamente, dei coscritti), oltre ad aderire più o meno consapevolmente ai (dis)valori nazisti appena citati, si sentivano impegnati dalla parola data all'alleato tedesco, cui era venuto meno il Re con l'armistizio dell'8 settembre e con il successivo “voltafaccia” della dichiarazione di guerra alla Germania da parte del Governo del Sud. Si trattava, quindi, di restituire l'onore alla patria italiana, infangato sia dal “tradimento” regio sia dall'ignominioso disfacimento delle forze armate abbandonate in balia delle onde e prive di ordini. In effetti quel disonorevole “tutti a casa”, per citare un famoso fi lm sull'argomento, venne da non pochi italiani vissuto come un “vulnus” insanabile (infatti si è parlato al riguardo di “morte della patria”). Se così stanno le cose, appare evidente, in una prospettiva di giudizio storico alieno da intenti strumentali, che non si possano porre sullo stesso piano e “onorare” negli stessi termini i caduti delle due parti, essendosi gli uni sacrifi cati per far trionfare quei valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, dignità dell'uomo, democrazia e stato di diritto che tutti condividiamo (o diciamo di condividere). Gli altri, invece, si sono battuti fi no all'ultimo per la negazione di quei valori e per l'affermazione di un terribile “Nuovo Ordine” eversivo della civiltà grecogiudaico- cristiana nonché dei più elementari valori dell'umanesimo. La non raffrontabilità sotto il profi lo etico delle due scelte sta anche nel fatto indiscutibile che i propugnatori di quelle aberranti idee politiche dopo la loro epocale sconfi tta hanno potuto fruire di quelle libertà che loro, ove avessero vinto, avrebbero certamente negato ai loro avversari. Né può fondatamente ritenersi, per chi aderì alla RSI solo per patriottismo e perché bisognava tenere fede alla parola data, l'equivalenza morale di tale scelta con quella antifascista. Tali considerazioni costituiscono patrimonio comune di tutte le forze politiche democratiche europee senza distinzione tra Destra e Sinistra. Anche per forze come la CDU tedesca, i conservatori britannici, i gollisti francesi, tesi ispirate all'equivalenza del valore etico-politico delle scelte sono assolutamente improponibili, trattandosi di partiti conservatori e moderati di centrodestra che comunque assumono senza ambiguità l'antifascismo come valore fondante. Dispiace constatare che due importanti partiti di maggioranza a Molfetta e il Sindaco stesso sposino tesi relativiste e revisioniste che, obbiettivamente, impedendo il consolidarsi di una memoria condivisa, ostacolano la piena legittimazione reciproca contribuendo a perpetuare un bipolarismo “primitivo” fatto di incomunicabilità e di reciproca percezione dell'avversario politico come “nemico”. Il rammarico è ancor più forte se si considera che Forza Italia proclama di essere erede, nel contempo, della cultura del Partito liberale e della tradizione politica della Democrazia Cristiana di De Gasperi, partiti che facevano parte del CLNAI, che diressero politicamente e militarmente la Resistenza e fi rmarono la condanna a morte di Mussolini e dei principali responsabili della RSI. Mi chiedo se gli esponenti di queste forze politiche ritengano ad esempio degni degli stessi onori il cap. Manfredi Azzarita, don Pietro Pappagallo, Gioacchino Gesmundo, Bruno Buozzi, Duccio Galimberti da una parte, e Alessandro Pavolini, Achille Starace, Roberto Farinacci, Pietro Koch, Mario Carità dall'altra. Cosa avrebbe detto il nostro Gaetano Salvemini, di cui quest'anno ricorre il cinquantenario della morte, di chi mette sullo stesso piano chi è morto combattendo per la libertà e chi è caduto per negarla e per far trionfare la tirannide? Non si tratta di coltivare agiografi che mitologie resistenziali, né di ignorare la coesistenza di spinte diverse nella lotta partigiana, ma qui il discorso, da affrontare “sine ira et studio”, ci porterebbe troppo lontano e richiederebbe un intervento apposito. Certo nel corso della contesa mortale con il nazifascismo vi furono comportamenti dei vincitori fortemente censurabili, come il bombardamento indiscriminato a scopo terroristico delle città tedesche costato non meno di 500.000 morti, la cacciata e deportazione in massa di sedici milioni di tedeschi dalla Prussia orientale, dalla Slesia, dalla Pomerania e dai Sudeti, che provocò la morte di oltre un milione di civili, per non parlare dello stesso bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Anche in Italia vi furono eccessi sanguinosi dopo il 25 aprile, a cominciare dall'oltraggio ai cadaveri di Mussolini e di altri esponenti della RSI a Piazzale Loreto, fi no alle esecuzioni sommarie di diecimila fascisti o presunti tali, per non parlare dell'orribile delitto delle foibe giuliane commesso dai partigiani di Tito. Va detto però che l'espressione maggioritaria delle forze della Resistenza riuscì a isolare quelle spinte, in particolare quelle frange del PCI facenti capo a Pietro Secchia, che coltivavano progetti insurrezionali e che furono sconfi tte nello stesso partito dalla preponderante maggioranza togliattiana Nonostante tutto, gli errori delle forze antifasciste non possono essere paragonati alle terribili responsabilità del nazifascismo. Quindi, amici della Destra molfettese, se volete ricordare i caduti per la causa nazifascista vi suggerisco il 2 novembre che è il giorno della pietà per i defunti ma, vi prego, lasciate perdere il 25 aprile. Dite che così come la celebriamo noi è una festa di parte? Ebbene, se considerate di parte l'omaggio ai valori della nostra Costituzione repubblicana e della civiltà contro la barbarie, se considerate di parte inneggiare alla forza della ragione contro la ragione della forza, signifi ca che non condividete i valori comuni a tutte le nazioni democratiche. Se non ne siete convinti chiedetelo a Sarkozy, che come suo primo atto nella veste di Presidente della Francia ha reso omaggio a trentacinque giovani partigiani fucilati dalla Gestapo alla vigilia della liberazione di Parigi. Chiedetegli perché non ha omaggiato anche i collaborazionisti francesi che li hanno denunciati e che poi sono stati giustiziati?
Autore: Mino Salvemini segretario Ds