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“A. F. Formiggini abbandona la terra” Vita e morte di un editore ebreo
15 febbraio 2002

di Ignazio Pansini La legge n. 211 del 20 luglio 2000, che consta di due soli articoli, e che istituisce il “ Giorno della Memoria”, va senza dubbio apprezzata e osservata. Ritengo tuttavia che vada anche sottolineata una certa ambiguità di formulazione, nella misura in cui accomuna i deportati per motivi razziali e politici, a quelli per eventi bellici. Intendiamoci, le decine di migliaia di soldati imprigionati dai tedeschi dopo l'8 settembre, e mandati in Germania, vanno ricordati ed onorati: ma sono vittime della guerra e di chi la volle, non del razzismo. E i militari catturati dai russi e dagli anglo-americani, morti a migliaia per fame e per malattie? A norma del primo articolo, dovrebbero essere celebrati, là dove si prescrive di ricordare genericamente “gli italiani che hanno subito la prigionia”; ma a norma del secondo no, perché le cerimonie riguardano i “deportati militari nei campi nazisti”. In realtà, le deportazioni causate da eventi bellici da una parte, e quelle invece da appartenenza razziale e opposizione alla dittatura dall'altra, andavano nettamente distinte nei due diversi articoli di quella legge. Anche per evitare, nelle celebrazioni, indebiti “fritti misti”, causati dall'ambiguità della norma, ma anche dalla filosofia del “tutti vittime, nessun colpevole”. Con prevedibili amnesie sulle vere responsabilità della guerra, dell'antisemitismo, dell'8 settembre. Detto questo, do anch'io un piccolo contributo alla celebrazione di questa giornata, raccontando un'esperienza personale, capitatami nel corso del mio lavoro, e a mio parere degna di essere pubblicata. Angelo Fortunato Formiggini nacque a Modena nel 1878, da una famiglia di antica tradizione e cultura ebraica. Laureatosi in legge e filosofia, decise, dopo aver pubblicato alcuni lavori giovanili di argomento letterario, si dedicò all'attività editoriale. La sua Casa Editrice ebbe sede prima in Bologna, successivamente a Genova, e dal 1916 definitivamente a Roma. Le Collane di Formaggini, ricordiamo i “Profili”, le “Apologie”, le “Medaglie”, i “Classici del Ridere”, rinnovarono la tradizione dell'editoria colta italiana e soprattutto, grazie alle felici e geniali intuizioni di Angelo Fortunato, dimostrarono che la diffusione della cultura poteva conquistarsi un pubblico più vasto, che domandava una maggiore accessibilità alla tradizione letteraria e storico-filosofica italiana. Innumerevoli furono gli interventi del Nostro a favore della promozione di un sapere libero da condizionamenti ed egemonie, ed aperto alla valorizzazione dei filoni di pensiero ingiustamente considerati minoritari nella cultura del nostro Paese. Memorabile la sua polemica con Giovanni Gentile, accusato di voler egemonizzare e discriminare l'Istruzione, creando una scuola bassa confessionale, ed una alta metafisico-idealistica, ignorando l'evidente incoerenza per fini meramente personali e politici. Questa battaglia l'accomuna a tanta parte del pensiero italiano, emarginato in quegli anni da quelle “fabbriche del vuoto”, magistralmente ridicolizzate dal nostro Salvemini: penso a Giuseppe Rensi, ad Adriano Tilgher, e a tanti altri. Se coerente appare la figura di Formiggini come animatore e rinnovatore di cultura, molto più complesso risulta il suo rapporto con l'ebraismo e con il fascismo. Pur non rinnegando le proprie origini, anzi concedendo largo spazio nelle sue collane ad argomenti ed autori ebraici, auspicò sempre una libera e spontanea assimilazione alla nazione italiana. L'Atto di Emancipazione, firmato da Carlo Alberto il 29 marzo 1848, confermato ed ampliato nella legislazione liberale post-unitaria, aveva assicurato a questa minoranza la piena cittadinanza, e la libera professione delle proprie convinzioni politico e religiose. La gratitudine nei confronti della monarchia ed una sincera adesione alle sorti dell'Italia liberale, confermata, tra l'altro dal contributo al medagliere della grande guerra, trovarono in Formiggini uno dei più fervidi assertori. Si spiega così anche il suo scetticismo nei confronti del primo Sionismo. Purtroppo non ebbe nei confronti del fascismo la stessa lucidità dimostrata in tante battaglie culturali ed editoriali. Se non si piegò mai a quei servilismi ed autocensure, propedeutici a cospicue commesse e sovvenzioni, che videro protagonisti molti suoi colleghi, assurti nel dopoguerra a campioni dell'antifascismo, non volle opporsi alla dittatura, contentandosi di poter proseguire in dignitosa autonomia la sua attività e ritenendo, purtroppo come la maggior parte degli ebrei italiani, che il fascismo fosse una temporanea e spiacevole anomalia del liberalismo italiano, destinata a scomparire, venute meno le premesse economiche e sociali che l'avevano provocata. Per questo, la promulgazione nell'autunno 1938 delle inique leggi razziali, sottoscritte dal penultimo Savoia, lo colse di sorpresa, lo prostrò, e l'indusse a programmare, con inaudita freddezza, il proprio suicidio. Offeso come italiano, prima ancora che come ebreo, dalla codificazione di quell'antisemitismo nostrano che ingenuamente aveva considerato negli anni precedenti una delle solite “italiche fesserie”, o che forse aveva semplicemente rimosso, volle proclamare con quell'atto estremo la sua protesta al mondo, illudendosi che potesse scuotere la coscienza degli italiani, e persino di coloro che avevano avuto in quel misfatto pesanti, storiche responsabilità. Recatosi il 28 novembre 1938 nella sua Modena, ritrova alcuni vecchi amici, cena affabilmente con loro, riposa tranquillamente. Il mattino seguente si precipita dalla torre della Ghirlandina gridando “Italia ! Italia!”. Aveva lasciato presso la moglie un volume manoscritto di motti, pensieri ed epigrafi, che fu pubblicato postumo nel 1945 con il titolo “Parole in libertà”, e che è importante per conoscerlo anche nelle sue contraddizioni, evidenti, ma sempre intellettualmente oneste. Il regime, pavido dei morti forse più che dei vivi, impose funerali notturni e vietò i necrologi sulla stampa. Ma il vecchio Formiggini con un ultimo gesto, tipico dell'uomo, aveva già pensato ad annunciare la propria morte, inviando a colleghi editori e ad amici un biglietto listato a lutto, con un breve messaggio dattiloscritto. Ebbene, una copia di questo straordinario documento, mi è capitata tempo fa tra le mani, riordinando le carte di Piero Delfino Pesce, editore pugliese, repubblicano, incarcerato dal fascismo, e costretto ad interrompere la sua attività. Lo pubblico senza commenti, perché ci spinga a ricordare, certamente, ma anche a vigilare, sempre.
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