«La leggenda di San Nicola e le tre figlie (I parte)
Il racconto
C’era un uomo, una volta famoso e ricco che era caduto nella più tetra miseria. Aveva tre bellissime figlie, tre bellissime fanciulle che avrebbero fatto invidia alla più dolce delle Fate. Non avendo però soldi, il padre non poteva maritarle e quindi viveva una rovente tribolazione: «cos’altro deve vivere ancora il mio stanco cuore?” diceva: «Vedere le mie tre belle figliuole sfiorire giorno dopo giorno. Loro si lagnano perché hanno perduto la speranza. E cosa può fare un uomo vecchio come me che ha conosciuto la più lauta ricchezza e la più nera povertà? Che senso hanno più i miei giorni se le mie figlie altro non fanno che disprezzarmi ed umiliarmi per non aver reso loro un futuro? » si chiedeva continuamente senza avere dalla vita una risposta consolante. L’uomo pensava così di non avere alternative: «No, no, non ho altra scelta. Le devo vendere come schiave. Spero davvero di morire dopo averle vendute! ». Vendere le sue ragazze gli pareva la soluzione più chiara e praticabile. «Vada all’inferno la mia anima ma almeno loro avranno un padrone, qualcuno che le dia da bere e mangiare…», si tormentava. La figlia più grande ascoltava con dimesso interesse e rassegnazione il suo monologo interiore ma un giorno, dopo aver preso coraggio, sbottò: «basta con le tue farneticazioni, padre!», guardandola dall’alto in basso e corrugando la fronte lui le rispose: «ohi, Clotilde cosa ci fai qui… ancora sveglia?», «C’è che non voglio dormire» aggiunse accigliata. «E’ tardi sai? Va’ subito a letto!» ancora apostrofò lui con l’aria d’essere un padre padrone, ma lei rintuzzò: «di notte io so bene che tutti dormono, e quindi sono felice di sapere che posso fare qualcosa che altri non fanno, almeno di notte… infatti posso restar sveglia! Perché, dimmi padre, per quale a me recondito motivo dovrei alzarmi domattina? Ho un marito forse? Ho da accudire un bambino forse? Cosa avrei da fare domattina eh… Padre!!». Pianse a dirotto e se ne andò nella sua piccola e spoglia stanza. Il Padre provò a chiamarla ma subito udì un’altra voce, era quella della figlia mezzana Catena: «lasciale picchiare la testa contro il muro, padre…», lui si voltò e vide il volto rabbuiato di Catena che proseguì: «sai bene che amo la notte. Da quand’ero bambina. Mi ricordo la mamma che mi cantava le preghiere di Gesù, e mi diceva: vedi, Catena, la luna ti sorride, vedi…» fece una pausa e poi proseguì come una lama che affonda nella ferita, «povera mamma!». Lui sembrava un cane bastonato, un uomo perduto ma ebbe il coraggio di consolare sua figlia: «non tribolare Catena!». «E così ci vuoi vendere al maggior offerente», esplose Catena; «e questo come lo sai?» meravigliato ma anche quasi pago del fatto che qualcosa fosse trapelata dal suo ordito piano; «il paese è piccolo, anche se non ho mariti riesco a farli cantare gli uomini!». Fu questa una risposta che quasi indignò il padre che comunque dovette continuare mordendosi la lingua questo duetto familiare sprezzante e surreale. Poi abbassando gli occhi vide riluccicare una collana sul collo smagrito della ragazza: «e quella di chi è?». «E’ quella dell’unico uomo che sposerebbe me e la mia miseria!» sprezzante rispose acquistando un verdetto infamante: «ti sei venduta, per un’oncia d’amore». Ci fu una pausa frammista ad un pianto nascente che sembrava una timida zamplillante fontana: «è l’unico modo per vivere Padre!» e Catena si allontanò anche lei piangendo tirandosi dietro improperi violenti come: «ti lapideranno!! » e lei: «sempre meglio che morire di fame!”. Questa fu l’ultima risposta che fece cadere in un profondo abbattimento il padre delle tre figlie. «Oh, povero me, povero me!! Come poter sopportare quest’umiliazioni. Io non posso, io non ce la faccio Dio mio…» querulo si lagnava. Intanto era entrata in quella stanza che per davvero sembrava un tribunale della coscienza, Serena, la più piccola delle tre figlie, di quell’uomo cresciuto in fretta poiché rimasto vedovo a soli vent’anni. «Padre calmati, non perdere la speranza». Portandogli una mano sulla testa e carezzandogli i riccioli nerogrigi sul capo: «Serena, Serena mia, io proprio non ce la faccio. Sono vecchio ormai e non so davvero per quanti altri giorni potrò sopportare il dolore del mio fallimento». Lui era in fondo alla resa dei conti ma la dolce Serena ancora non aveva finito la sua consolante dichiarazione: «Non dire così Padre. Se siamo diventati così poveri non è colpa tua. Tu ci hai dato tutto quello che ci potevi dare. Come dimenticare che sei stato in gioventù un grande commerciante. Come dimenticare le battaglie che hai fatto per difendere i più poveri. Se penso a quella notte, a quella notte, quella maledetta notte! Se un Dio davvero esiste dovrà pur far pagare il fìo a quei ladri maledetti che ci rubarono tutto, che ci incendiarono la casa e uccisero la nostra povera mamma!». La parola a volte diventa un balsamo taumaturgico. In un attimo quella povera ragazza era riuscita a cucire le pieghe del tempo e a restituire una briciola di pace nel cuore avvilito di quell’uomo. Si abbracciarono forte forte. Dopo lei proseguì: «Anche se domani non dovessimo restar con te, anche se ci venderai al peggiore padrone io so bene che l’avrai fatto per salvarci la pelle»; gli dette un bacio dolcissimo sulla fronte e se ne andò anche lei. Lui si accasciò sconfortato sulla sedia abbandonandosi alla più profonda e dolorosa preghiera.