«C’è… una già fiorente letteratura che s’è premurata d’illustrare le dolorose disavventure degli internati nei teutonici Lager: cronache, diari, racconti, novelle, romanzi, film, documentari, servizi speciali nei giornali e nei settimanali a rotocalco… Che c’è altro da sapere sull’argomento?». Così riflette Dionisio Altamura nel suo libro intitolato Viaggio gratis all’estero, in cui racconta le sue vicende di Internato Militare Italiano in Germania, fra il ’43 e il ‘45. Come dargli torto, ad uno sguardo sommario. Ma che tutto sia già stato detto sull’argomento è in realtà un luogo comune. Noi che non abbiamo vissuto quelle esperienze ci ritroviamo nell’atteggiamento di chi circonda il povero don Gennaro, protagonista del dramma di Eduardo Napoli milionaria, il quale di ritorno dall’orrore della deportazione tenta invano di raccontare le sue vicende ad una famiglia indifferente e anche seccata dai suoi mesti racconti. Anche al molfettese Altamura è toccata una sorte simile. Con le sue parole: «Al ritorno… Anche gli ascoltatori mancavano… non avrei mai potuto allora supporre… che la mia per lo meno non comune avventura non avrebbe al ritorno trovato un paio solo di liberi orecchi disposti ad ascoltarla. Nessuno pareva volesse sentirla la mia storia…» (p. 292). Che per di più lui faticava anche a raccontare. «All’epoca del rimpatrio – confessa – … fui vittima di una forma di choc tutta speciale, di origine spirituale e di difficile diagnosi e conseguentemente di terapia difficile…» (p. 25). Fermare sulla carta i ricordi nell’immediatezza degli avvenimenti era impossibile. Ed è anche per questa ragione – non la sola – che Altamura nel 1990, a quasi cinquant’anni dalla fine della guerra e delle sue terribili esperienze di ufficiale dell’esercito italiano prigioniero dei tedeschi, decide di scrivere. Nasce così quella narrazione che allora nessuno voleva sentire. Ma a questo giro, dopo quasi altri quarant’anni, noi non abbiamo il diritto di negare l’ascolto. Perché a lui, come a tanti altri in tutto il nostro Paese, resta ancora tanto e tanto, di nuovo e diverso da dire, basta prestare attenzione. Se lo avessimo fatto prima e meglio, forse – chissà – non ci troveremmo a ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale nuovamente dietro la porta il rumore delle armi, e i rinnovati – quelli pure sempre crudelmente nuovi – crimini su un’umanità inerme. Il racconto di Dionisio Altamura è contenuto in un volume ormai introvabile e ingiustamente dimenticato, che chi scrive ha faticosamente e felicemente ritrovato in una libreria barese. Una singolare circostanza da cui va colta l’occasione per sapere e capire. Soprattutto e prima di tutto conoscere: Altamura ci offre la testimonianza diretta di un ufficiale del regio esercito italiano di stanza a Rodi, in una condizione di relativa tranquillità, alla maniera del film Mediterraneo per intenderci, che subisce quasi due anni di prigionia – dall’8 settembre 1943 all’agosto 1945 – perchè si rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Ai soldati, egli ricorda, non viene chiesto se intendessero collaborare con i tedeschi «… A noialtri ufficiali, sì, fu chiesto. E da chi? Nientemeno che dal nostro stesso comandante di battaglione» (p. 43), un figuro terribilmente minaccioso che, in palese tradimento dei propri ideali di militare italiano, promette morte in breve tempo a tutti quelli ostili al regime di Salò, e rassicura sulla loro sorte i collaborazionisti, i quali pure nel giro di pochi mesi verranno deportati anch’essi. Parte dall’isola «delle rose», come viene definita, questo viaggio non richiesto e non voluto – «gratis» ricorda l’autore nel titolo – la cui narrazione è dichiaratamente votata all’ironia, allo sguardo il più possibile distaccato dalle violente e umilianti esperienze attraversate, e che non disdegna all’occasione persino di suscitare qualche vago e tenero sorriso su alcune circostanze francamente singolari. «Vuol essere dunque il presente un racconto spontaneo, leggero più che mi riesca, ed anche ameno, fin dove e come le mie capacità consentiranno» (p. 30) In realtà le capacità cui si accenna sono notevolissime: Altamura è un latinista di prim’ordine, un uomo di alta e profonda cultura classica, un insegnante che si trova a fare l’ufficiale di guerra, e che attinge dal mondo degli studi una sorta di olimpica calma, sovrapponendola ad un carattere già naturalmente alquanto mite e pacifico. Tranne – riconosce – che nella scrittura, nella quale deborda e sconfina per il piacere stesso dello scrivere. Parte con gli altri ufficiali da Rodi lasciando i suoi soldati, che ricorderà per nome uno ad uno, associando a ciascuno un profilo psicologico ed una descrizione fisica degna di una penna navigata quale appunto era: Mimmo De Gemmis, con cui tenta una sfortunata fuga dall’isola, Umberto Falciola «il nostro Chichibio», cuoco provetto, Giovanni Rutigliani, l’ortolano di Terlizzi, e tanti altri. La destinazione è il campo tedesco di Wietzendorf che lo ospiterà – si fa per dire – a lungo. Ma lì giungerà dopo molti mesi, già mortificato e sbeffeggiato dalla inutile arroganza dei carcerieri tedeschi, e sfiancato da un folle viaggio per l’Europa. Prima di quella tappa ci saranno il volo da Rodi ad Atene in cui tutti, ma proprio tutti, finiscono per vomitare nei sacchetti a loro disposizione; 12 giorni di un treno reso schifoso dall’accoglienza dei bisogni “corporali” di tutti, quindi un giro surreale diretto a Versen, al confine con l’Olanda, ma passando da Salonicco attraverso la Macedonia, la Bulgaria, la Serbia quindi l’Ungheria, l’Austria tutta la Germania fino al lager dove Dionisio Altamura, nel Natale del 1943, diventa il numero 104570. Quando uscirà da quell’inferno, con altri soldati si introdurrà negli uffici dove recupererà la sua foto “segnaletica” che ora campeggia sulla copertina posteriore del libro. Un ricordo cui non ha voluto rinunciare. Era giunto a piedi al primo vero lager che avesse mai visto: il campo di Fullen, dove «… baracche in doppia fila… attendono le nostre stanche membra, la nostra tristezza, la nostra miseria, le nostre lamentazioni e gli incessanti diverbi: tutto il nostro dolore» (p. 118). Da qui imparerà gli aspetti atroci della convivenza forzata in una situazione di pena comune che però non addolcisce nessuno, anzi, incattivisce tutti, e porta ad uno scontro fratricida come, rammenta, i famosi capponi di Renzo. Nasce qui anche il curioso ventaglio descrittivo di tipi fisici e psicologici: quello che parla in continuazione, il “protestante” che ha da ridire sempre su tutto, quello che mangia riserve di cibo davanti alla fame degli altri, le dotte discussione sul plurale della parola “stomaco” (stomaci o stomachi…), quello che racconta succulente ricette di manicaretti che non potrà mai ammannire, quelli che filosofeggiano sulla loro condizione di prigionieri civili o militari, gli altri che ragionano su chi sia più colpevole tra Hitler e Mussolini. E le «…nefaste e funeste note nientemento che di Giovinezza, giovinezza» cantate con entusiasmo dalla baracca vicina, quella degli optanti che «…si sono di già piegati ai maltrattamenti dei crucchi ed hanno deciso di aderire alla neonata Repubblica Sociale» Parole e atteggiamenti che compensano i vuoti dell’esistenza e l’incubo del futuro. Ma questo inutile e tossico vagabondare per il continente non finisce ancora: con una perfidia forse non scevra da sommerso sadismo, come è già stato osservato anche da attendibili studiosi, e sicuramente orientata alla speranza dell’annientamento di questi corpi nel corso dei malagevoli spostamenti, così da ridurne progressivamente il numero, il 23 marzo del 1944 egli giunge a Standbostel dove resterà fino al dicembre dello stesso anno. Nel tempo il livello di sopravvivenza si fa sempre più precario. E’ lì, ricorda Altamura, che la fame comincia a far dire e fare cose assurde e vergognose. Alcuni prigionieri ricevevano pacchi di viveri da casa, che seppuresaccheggiati nel trasporto costituivano un ricco bottino. Gli altri, quasi tutti meridionali e quindi più lontani dalle rispettive case, non ricevevano nulla e poiché alcuni potevano «… concedersi l’agio di sbucciare la razione di patate lesse di loro competenza, avveniva che le bucce dagli stessi regolarmente scartate fossero, a turno, a disposizione di noialtri che avevamo invece l’abitudine e sentivamo l’urgenza e anche il gusto, ahinoi!, di masticarle ed ingoiarle» (p. 169). Per conquistarsi qualche boccone supplementare, i prigionieri si sottoponevano ad una sorta di orrendo defilè in cui nudi e magrissimi sfilavano davanti ad alcuni compagni/giudici. Essi attribuivano a ciascuno gradi di macilenza: ai deperiti di prima classe un mestolo in più di sbobba in caso ne fosse avanzata dopo la normale distribuzione, a quelli di seconda classe – in cui il nostro Dionisio entra soddisfatto a far parte – le sbriciolature che nonostante l’attenzione cadevano durante il taglio delle pagnotte (p. 146). Nei campi c’era anche un vivace baratto di oggetti, e ad un certo punto il nostro autore si determina a cedere una sua catenina d’oro in cambio di un pezzo di pane. La presentazione dell’uomo con cui avviene lo scambio, un orientale addetto allo svuotamento della latrina, va riconosciuto come un magistrale brano di testo descrittivo carico di umiliazione e di mortificazione: «Il mio cliente, tutto ravvolto entro un feccioso cappotto ed un sugnoso copricapo, con quel poco del mongolico volto che fuori ne restava, tutto coperto di grosse e irsute setole, di pustole di non so quale natura, di croste giallastre e d’escrementi di varia provenienza…- cerca – dentro la tasca del maleodorante pastrano quel miserabile pezzo di pane che stava per essere mio». Altamura ha un autentico conato di vomito al cospetto di quel pane, tenuto da quelle mani, ma «Alla fine la morsa atroce del digiuno l’ebbe vinta sullo schifo» (p. 220). Il racconto procede tra incredibili aneddoti fino ad un momento straordinario: nell’aprile del ’45 una mattina i prigionieri si accorgono che il campo è privo di controllo. I tedeschi sono andati tutti via, nella notte. Di fatto gli internati non sono più prigionieri, e dopo aver adeguatamente festeggiato si portano a qualche decina di chilometri nella cittadina di Bergen, diversa anche se non lontana dal famigerato campo di Belsen (che pure loro visiteranno e che si era trasformato in un enorme postribolo a cielo aperto). Lì per un paio di settimane prendono alloggio nelle case lasciate libere dagli abitanti per ordini superiori. Trovate linde e ordinate, vengono lasciate devastate e derubate da uomini affamati e disperati quali loro erano. Tutti sperano in un veloce ritorno a casa, ma bisognerà sottoporsi a turni di viaggio e il Nostro rientrerà solo alla fine di agosto di quel 1945. L’equilibrio, la correttezza, l’onestà intellettuale di chi ha scritto queste memorie sono esemplari. La loro lettura plana fra episodi detestabili che portano vergogna all’umanità intera e immagini di autentica bontà e solidarietà umana. Dalla distruzione della Madonnina di terracotta che ornava la cappella del lager, da parte di tedeschi che cercavano chissà cosa dentro quell’unico informe oggetto di devozione, all’episodio della liberazione di due piccoli caprioli, catturati nel bosco e poi liberati invece che mangiati. Dagli assassinii inutili e crudeli di prigionieri inermi nel lager, ai partigiani bambini che durante una fermata del treno, in Polonia, lanciano viveri nelle carrozze, guidati da una donna svelta e coraggiosa. Dalla lotta impari e sempre perduta contro i pidocchi, alle ariose descrizioni di boschi e prati del nord Europa. La scrittura si avvale di un lessico elegante e qualche volta raro, che accentua il senso di ironico distacco dalle situazioni, e di ritmi che rasentano spesso quelli poetici. Fino ad un esito inaspettato e insospettabile, in cui l’Autore si immagina in convivenza fraterna e in armonia di sentimenti con l’aguzzino denominato Barabba, custode di prigionieri, odioso e cattivo, che lui in sogno pensa di poter reincontrare con le rispettive famiglie, moglie e figli, ad un’unica e festosa tavolata di riconciliazione. L’odio è purtroppo un grande corroborante della vita di molti, ma indubbiamente ha anche l’effetto di corrodere dall’interno la componente di generosità e di accoglienza di ogni essere umano. Dionisio Altamura non ha corso questo pericolo, perchè ha saputo saggiamente trasformare la repulsione e il rancore in distaccata curiosità e in compassionevole considerazione degli errori di tutti. Senza per questo rinunciare a condannare senza tentennamenti e con grande forza, la fonte di ogni sciagura dell’umanità che è a suo avviso la guerra. Quando ha notizia della sua conclusione, egli saluta la pace in lunghe, sentite e accorate pagine, quasi una preghiera laica di straordinaria e visionaria attualità: «Benedetta la pace finalmente arrivata… Benedetta nei cieli d’Europa, arrossati di vampe e di sangue, assordati di scoppi e di tuoni; benedetta nel morbido cielo d’Italia» (p. 262). © Riproduzione riservata