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Successo della mostra “Via Crucis”
15 aprile 2017

“Il tuo volto io cerco Signore, non nascondermi il tuo volto. Vorrei avere anch’io la capacità di penetrare la profondità del tuo sguardo e asciugare con gesto coraggioso il tuo volto e finalmente scoprire che la tua immagine è impressa sul lino della mia vita”. Il salmo 27 fornisce lo spunto a Mons. Amato per una delle più vibranti meditazioni della sua Via Crucis, in cui echeggia lo sgomento dinnanzi alla parabola involutiva della storia, bilanciato, tuttavia, dalla speranza indomabile che quest’“atomo opaco del male” possa tornare a riflettere il volto di Cristo. Le prose meditative delle quattordici stazioni della Via Crucis, composte dal compianto Mons. Domenico Amato, e le tele da esse ispirate, frutto dell’itinerario creativo di Vito De Leo, tornano, dopo più di dieci anni, a dialogare con i fedeli, nella bella mostra allestita presso il Museo diocesano di Molfetta. Inaugurata in data 5 marzo e visitabile sino al 4 giugno, l’esposizione è promossa, oltre che dal Museo diocesano, dall’ente gestore, la cooperativa FeArT, e dall’Associazione Musei ecclesiastici italiani. In occasione del vernissage sono intervenuti don Michele Amorosini, direttore del Museo diocesano, l’artista De Leo, il poeta e scrittore Pasquale Vitagliano, il fratello del religioso, Sergio Amato. La serata si è conclusa con l’intervento del vescovo, mons. Domenico Cornacchia, che ha ricordato con nostalgia la figura di don Mimmo, teologo e sacerdote di profonda umanità, scomparso improvvisamente nell’ottobre del 2015. La Via Crucis di Amato e De Leo rappresenta una pregevole, a tratti struggente, occasione di meditazione. In fecondo dialogo con le prose del religioso, De Leo destruttura l’iconografia tradizionale e punta su un robusto simbolismo, in un tripudio di cromatismi che conferiscono un’aura sacrale alle sue variazioni sul tema della via della Croce. L’arte mira all’essenziale, potenziata, nella sua laica ieraticità, dalla pittoscrittura. Emergono pregevoli omaggi, quale quello a Chagall, che muove dalla maternità di Maria, recuperando la tradizione archetipica legata all’icona della Grande Madre. Nella forma al centro della tela della stazione IV, rivive forse la donna gravida dello Stedelijk Museum, che però ingloba nel suo corpo il figlio diletto, in una comunione sug-gellata dal lilium. Simboli di vita, di luce che irrompono dal buio del monocromo di sfondo, in antitesi con l’appressarsi della Morte. Non è casuale l’azzurro della stazione V, esaltazione della social catena, che trasforma il pondus in Suavitas e allude al volo. “Gli uomini sono angeli con un’ala soltanto”. Il Velo della Veronica della stazione VI, irrorato di cruore al punto che il dulcis vultus diviene sbiadito e quasi irriconoscibile, appare quanto mai attuale e perfettamente in linea con il testo in prosa del religioso. La stazione XI è un’incursione nei labirinti della Storia, attraverso i simboli che talora possono, se manipolati da ideologi senza scrupoli, trasformarsi in strumenti di morte, di crocifissione dell’altro. La stazione XII è il trionfo della luce e non è paradossale che essa irrori la tela nel momento in cui sembra celebrarsi il Triumphus Mortis. È il segno della speranza che il pittore coltiva come un fiore e che torna a prevalere nell’ultima stazione. La prosa di Mons. Amato vibra con elegante semplicità, scolpendo, per mezzo di una parola nitida e incisiva, le tappe del Calvario. L’assunto che vibra alla base della riflessione del religioso è inscritto già nel libro di Giobbe, le cui sentenze fungono da esergo per ogni stazione. La sofferenza non è risparmiata al giusto patriarca e quel percorso di dolore è figura della sofferenza che toccherà al Figlio di Dio, per riscattare l’umanità. In quel giorno tragico si inscrive il destino di ciascuno di noi: ognuno vivrà la propria via della croce. Il silenzio della morte non appare tuttavia annientamento definitivo. In esso germoglia nuova vita. Le prose di Mons. Amato spesso si caratterizzano per l’intonazione fortemente drammatica, come nella stazione VII, che muove rammentando le nozze mistiche tra il Messia e Gerusalemme, poi tradite dalla “città di pace” che rinnega se stessa in quell’“amore violato”. Talora, l’incedere si fa elegiaco, come nell’umanissimo explicit della stazione XIII, in cui nel volto, forse “raggiante di gloria”, di Cristo deposto, sembra vibrare “l’ultimo bagliore del giorno che muore”. A distanza di tempo, è significativo e commovente che le ultime parole delle meditazioni di mons. Amato siano tese a elevare un’esaltante Laus Vitae: “La morte ha vinto la morte e la vita risorge”.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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