Il 30 marzo 1920 Francesco Saverio Nitti, grazie al «voto di attesa» del Partito Popolare Italiano, ottenne la fiducia alla Camera per il suo secondo ministero con 250 voti favorevoli e 195 contrari. Mentre nel Mezzogiorno e nel Lazio, con lo slogan «La terra a chi lavora», si intensificavano le occupazioni contadine del “biennio rosso”, il ministro dell’agricoltura Alfredo Falcioni con un decreto del 22 aprile 1920 impose misure restrittive per l’assegnazione di terre, sostituendo il decreto del suo predecessore Achille Visocchi del 2 settembre 1919, che aveva dato ai prefetti la facoltà di concedere l’occupazione di terre incolte o scarsamente produttive alle associazioni agrarie, alle “università agrarie” e ai contadini ex combattenti. Le autorizzazioni s’intendevano della durata di quattro anni, estensibili a tempo indeterminato per i terreni con obbligo di bonifica o richiedenti trasformazioni colturali. Il decreto era servito a frenare il movimento rivendicativo dei braccianti, ma in concreto non aveva prodotto grandi risultati. Intanto Gaetano Salvemini, diviso fra gli impegni di professore universitario, direttore dell’Unità e deputato, il 7 febbraio aveva scritto una lettera a Luigi Gasparotto, capo del Gruppo parlamentare del Rinnovamento, presentando le sue dimissioni irrevocabili dal raggruppamento. Infatti in quello stesso giorno aveva letto sull’Idea nazionale che in quel gruppo ormai prevaleva il «colore del fascismo e del Patto di Londra». Salvemini, convinto che il trattato di Londra era «stato sempre una cattiva azione e un cattivo affare, e la sua applicazione sarebbe» stata allora «più che mai un disastro per l’Italia», non aveva più motivo di restare nel gruppo. In quello stesso giorno aveva tenuto alla Camera il famoso discorso Noi, rinunciatari! sul problema dell’Adriatico in opposizione al Patto di Londra. In séguito Gasparotto e altri deputati del Rinnovamento ricambieranno l’abbandono con l’ostilità in Parlamento sulla questione fiumana e adriatica, su cui Salvemini aveva avuto e avrà attacchi ben più feroci dai nazionalisti. Il 23 aprile una commissione di contadini di Molfetta e il segretario della Lega contadini di Giovinazzo, accompagnati dal segretario della Camera confederale del Lavoro, si recarono dal prefetto di Bari Camillo de Fabritiis. I contadini molfettesi lamentarono il mancato pagamento dei lavori eseguiti sulla provinciale Molfetta-Bitonto, mentre il segretario della Lega contadina giovinazzese sollecitò l’intervento prefettizio per l’avvio di alcuni lavori programmati, ma non ancora iniziati. Il comm. de Fabritiis, stando al Corriere delle Puglie del giorno seguente, assicurò il suo più vivo interessamento. Mentre a Ruvo ci furono un morto e molti feriti fra i contadini tumultuanti caricati dalle forze dell’ordine, il 25 aprile nuovi disordini a Molfetta furono scongiurati da una prudente decisione del regio commissario Gerardo Palmieri, ormai sufficientemente ammaestrato dai tumulti che il 29 marzo avevano messo sottosopra la città. In mattinata un piroscafo di circa mille tonnellate della Società “Puglia” s’incagliava all’entrata del porto di Molfetta con un carico di oltre diecimila quintali di grano. Mentre il capitano faceva cominciare lo scarico per il disincaglio, la società telegrafava al comandante della nave di proseguire alla volta di Brindisi. Ma il commissario Palmieri, per evitare guai peggiori, dispose che si continuasse a scaricare il grano, inviando un telegramma al prefetto di Bari: «Stamane giunto piroscafo carico grano destinato questa Sezione. Trovandosi incagliato cominciò subito scarico. Quasi contemporaneamente Società Puglia telegrafò capitano proseguire Brindisi. Notizia produsse grave fermento e dovetti ordinare proseguimento scarico giornata evitando disordini. Momento estremamente grave eccitazione animi, pregola provvedere che sia continuata operazione, salvo dirigere Brindisi qualche altro piroscafo destinato questa Città». Il momento era particolarmente carico di tensione perché, nonostante la promessa di inviare tre piroscafi a Molfetta, l’unico in precedenza arrivato era stato dirottato altrove, con grande disappunto della popolazione affamata e degli scaricatori portuali che reclamavano lo sbarco nel porto di Molfetta del grano destinato ai mulini e pastifici molfettesi. La viva impressione destata dai disordini annonari del 29 marzo e della successiva agitazione bracciantile è avvertibile anche in un manifesto delle organizzazioni “bianche” della Confederazione Italiana dei Lavoratori stampato per il 1° maggio 1920 e diffuso dal segretario generale della sezione molfettese del Partito Popolare Italiano, che allora aveva sede in vico II San Giuseppe. Nell’appello ai lavoratori, tra l’altro, si legge: «Sappiamo essere più saggi della borghesia liberale, e giungere, non ad alcuna dittatura di classe, ma al giusto trionfo della causa operaia e popolare, risparmiando a noi, alla Patria, all’Umanità le violenze rivoluzionarie e quelle reazionarie. […] Per questo voi volete non il comunismo socialista ed anarchico, ma o la vostra terra e gli altri strumenti del vostro lavoro, o almeno la giusta partecipazione alla proprietà, alla direzione agli utili delle aziende presso cui lavorate. […] Per questo volete non la lotta fratricida e settaria fra le organizzazioni di diverso colore, ma, nel pieno rispetto della libertà di organizzazione e di coscienza, la solidarietà sindacale delle varie organizzazioni di lavoratori, avviamento alla auspicata unità sindacale. Per un domani migliore, più civile, più cristiano, di popoli e di classi affratellati nel lavoro, nel progresso, nelle divine ascensioni della futura umanità». A questa dichiarazione, tutta improntata alla cointeressenza e all’interclassismo cattolico, ma pure aperta a un interessante richiamo all’auspicabile unità dei sindacati di diverso colore politico, a tale dichiarazione rivolta ai proprietari, ai contadini e ai braccianti dal quarantaduenne sacerdote segretario del locale PPI don Mauro Nicolò Amato, figlio del muratore Pantaleo e della casalinga Susanna Altamura, faceva riscontro l’attenzione del vescovo Giovanni Jacono rivolta all’ordine sociale e alla formazione degli studenti cattolici. Tanto è vero che dopo la fugace apparizione dei centri giovanili “Victoria” e “Religione e Studio”, nel 1920 fu fondato il circolo “Vito Fornari”, che ebbe più lunga vita grazie anche all’impegno dell’assistente, il sacerdote Cesare Carbone (che diverrà docente del Seminario Regionale), del presidente, ins. Corrado Balacco, e del segretario, Luigi Massari, che l’anno dopo riceverà la tessera del PPI pur essendo minorenne. I circoli studenteschi cattolici rivolgevano la loro attenzione soprattutto ai rampolli della piccola e media borghesia agraria, professionista e imprenditrice. Restavano solitamente al margine i figli dei contadini, degli operai e dei pescatori, mentre qualche cura veniva riservata dal Patronato provinciale agli orfani dei contadini e dei marinai morti in guerra. Nel 1920 se ne contavano 105 a Molfetta, dove il giudice delle tutele era il cav. Giuseppe Panunzio e il segretario del Patronato locale era il vicecancelliere della pretura Ignazio Pansini, che spesso sostituiva nelle indagini e nell’assistenza i latitanti componenti del Comitato molfettese. Un’ispezione venne effettuata il 15 aprile dal cav. Salvatore Fenicia, vicepresidente del Patronato provinciale, che convocò con le rispettive madri quasi tutti gli orfani sussidiati dal Patronato di Molfetta nella sala della pretura. Il 2 maggio 1920 qualche giornale riteneva avviata a conclusione anche l’agitazione dei braccianti molfettesi, benché parecchi agrari non avessero firmato il «concordato». Il commissario Palmieri era riuscito a convincere una buona parte dei proprietari terrieri a ingaggiare giornalmente fino al 31 maggio dai 250 ai 300 disoccupati, a seconda dell’estensione dei fondi rustici interessati, per eseguire dei lavori agricoli. La paga giornaliera fu fissata in 5 lire a persona, un compenso considerato «tenue», ma dal punto di vista padronale giustificato dal mese corrente, che tradizionalmente non richiedeva interventi particolari nei poderi. In séguito ad aggressioni di socialisti a militanti popolari e alle proteste del PPI, Nitti l’11 maggio pose la questione di fiducia alla Camera, ma fu sconfitto con 193 voti contrari e 112 favorevoli, presentando perciò le dimissioni al re. Furono allora interpellati il cattolico Filippo Meda, che rifiutò l’incarico, e l’ex ministro alla guerra Ivanoe Bonomi, che però non riuscì a trovare un accordo coi popolari. L’incarico fu quindi ridato a Nitti, che il 21 maggio, affidando ai popolari due ministeri e quattro sottosegretariati, formò il suo terzo governo, subito travagliato il 24 maggio a Roma da uno scontro fra studenti nazionalisti e guardie regie, che provocò diversi morti e feriti. Intanto, per l’irreperibilità di grano tenero e duro, la crisi annonaria si faceva sempre più grave nel Barese e il 2 giugno il prefetto di Bari telegrafava al ministro degli Interni: «Popolazioni esasperate non si possono alimentare con promesse». Nitti, assillato dalla situazione finanziaria resa insostenibile dalla spesa statale per il prezzo politico del pane, decise di aumentare con un decreto-legge il prezzo del pane, suscitando vastissime proteste in Italia. Dalla fine di settembre 1914 alla fine di aprile 1920 i prezzi all’ingrosso erano settuplicati e quelli al minuto avevano seguito il forte andamento al rialzo. L’acme del movimento di protesta contro il caroviveri si toccò a Bari, a cominciare dal 7 giugno 1920, con lo sciopero generale iniziato dai ferrovieri del compartimento. Lo sciopero si estese alle operaie e agli operai della Manifattura Tabacchi, ad altri lavoratori e disoccupati, che con strepiti e proteste prima si fermarono presso il municipio e poi sotto la prefettura, mentre dalla città vecchia accorrevano stuoli di donne al grido di «Il pane a sei soldi!». Sei 6 soldi equivalevano a 30 centesimi. Nel 1913 il pane costava 40 centesimi al chilo, mentre in quei giorni era balzato a una lira e 50 centesimi. Inutili furono le parole del prefetto affacciatosi al balcone e al portone della prefettura. Si ebbero poi cariche delle forze dell’ordine, e mentre un gruppo di tumultuanti saccheggiò alcuni ristoranti, la maggior parte dei dimostranti rimase a gridare presso la prefettura fino a sera, sotto nuove cariche delle guardie regie e dei carabinieri, che spararono colpi di moschetto sui dimostranti, ferendone parecchi e inseguendone molti per le vie e arrestandoli. L’8 giugno il deputato socialista Arturo Vella si recò in prefettura per protestare contro le violenze della forza pubblica e gli arresti e chiedere la scarcerazione degli arrestati. Il 9 un gruppo di dimostranti si asserragliò in una casa in costruzione in piazza Santa Barbara, subito assediata da numerosa forza pubblica con scariche di fucileria, a cui operai e ragazzi risposero col lancio di pietre dall’abitazione. La folla accorsa nelle vie adiacenti fu respinta a colpi di moschetto e vi furono molti feriti, mentre le trattative fra il prefetto e il comitato di agitazione accompagnato dall’on. Vella si arenavano. Durante la notte i rivoltosi asserragliati nella casa di piazza Santa Barbara furono riforniti di pietre dalle donne di Bari vecchia. Il 10 giugno fu dichiarato lo stato d’assedio con l’intervento di reparti dell’esercito e si moltiplicarono gli arresti. Alle donne che urlavano per protesta le guardie regie e i carabinieri risposero con fucilate, spargendo il terrore per le strade e provocando molti feriti, tra cui una donna, che in séguito morì. La casa dei rivoltosi fu accerchiata da ogni lato per strada e con cecchini dall’alto del palazzo Di Tullio e sottoposta al tiro incrociato, mentre avanzava un’autoblindo con mitragliatrice, che gli assediati riuscirono a neutralizzare col lancio di due grosse pietre. Ma poi, con un assalto in massa, la forza pubblica espugnò violentemente la casa. Intanto anche largo Chiurlia in Bari vecchia veniva occupato e presidiato da autoblindo. Gli arresti si moltiplicarono e nel pomeriggio il prefetto cedette il potere all’autorità militare. Giunta la notizia della revoca del decreto che aumentava il prezzo del pane, lo sciopero fu interrotto, tranne che dai ferrovieri. Ma le guardie regie perquisirono e devastarono la Camera del Lavoro provinciale e imprigionarono per la notte centinaia di persone. L’11 giugno l’on. Vella, dopo aver protestato con alcuni dirigenti delle organizzazioni operaie presso il prefetto per le violenze della polizia e per la devastante perquisizione della Camera del Lavoro, riuscì a trovare un accordo con i ferrovieri del compartimento di Bari. I gravi «fatti di Bari» si chiusero con un telegramma di protesta della Confederazione Generale del Lavoro al ministro dell’Interno per la devastazione della Camera del Lavoro barese. Frattanto Nitti, annunciando il ritiro del decretolegge sull’aumento del prezzo del pane, il 9 giugno si era dimesso e il 15 il settantottenne Giolitti formò il suo quinto e ultimo ministero. Già alla vigilia di quel giorno, Salvemini da Roma, rivolgendosi al caro amico giornalista Ugo Ojetti, scriveva: «Rieccoci a Giolitti, auspice e pronubo Sonnino, che ha diretto la campagna del “Giornale d’Italia”. […] Voglio prender posizione alla Camera contro questa nuova mostruosità. Ma ci vuole una gran forza di volontà». Durante l’amministrazione commissariale, l’Ufficio Tecnico comunale di Molfetta nella prima metà di agosto aveva già approntato o stava preparando progetti riguardanti la sistemazione del lungomare Marco Antonio Colonna, il piazzale della stazione ferroviaria, un nuovo edificio per la scuola elementare con una spesa in bilancio di £ 900.000, la fognatura della città sulla base del progetto affidato all’ing. Meo Colombo di Roma e lavori murari per l’ampliamento dell’edificio provinciale “Apicella” per un importo stimato in 143.038,8 lire. Una più potente spinta alle rivendicazioni salariali fu data dalla ricostituzione della Camera del Lavoro in Molfetta, a metà agosto, da parte del trentottenne robbiese Pietro Sartoris, già viceparroco modernista di Crescentino, poi spretato, dalla fine del 1909 socialista rivoluzionario e dal 1914 segretario della Camera del Lavoro di Andria, appoggiato dal Partito socialista, ma controllato dalle prefetture italiane. Alla Camera molfettese aderirono le leghe dei contadini, frantoiani, muratori, pastai, calzolai, marinai, funai, ceramisti e bottai, ma ne restavano al momento fuori i pescatori, i lavoratori delle cave (i “cavamonti”), i barbieri e altre categorie. Dopo circa un mese e mezzo si videro i primi frutti del coordinamento classista di Sartoris. Infatti un nuovo accordo tra i proprietari e i braccianti, anche per interessamento del commissario Palmieri, fu siglato il 4 ottobre 1920 per l’annata agricola 1920-21, terminante il 31 settembre 1921. Per la raccolta di frutti e olive si prevedevano 7 ore al giorno a £ 2,40 a ora. Per la potatura il monte orario era fissato in 7 ore a £ 2 all’ora ovvero £ 2,20 per casi particolari. Per la zappatura erano previste 6 ore giornaliere a £ 1,80 a ora. Per l’aratura si dovevano corrispondere £ 1,80 per un massimo di 7 ore da dicembre a febbraio e di 8 ore da marzo a novembre. Nei frantoi non si potevano superare le 12 ore complessive di lavoro con un’ora di riposo, salvo a corrispondere lo straordinario per il tempo supplementare nella misura del 35% sul salario ordinario. Ai frantoiani spettavano £ 1,80 e ai capi frantoi £ 1,95 all’ora. Il pagamento in natura doveva consistere in un chilo di pane e in un litro di vino da £ 2,50 al giorno. Alla chiusura della campagna olearia al capo frantoio sarebbe spettato mezzo staio di olio, salvo diverso patto. A ogni frantoiano sarebbe stata corrisposta un’indennità settimanale di £ 3 per la pulizia personale. Il premio di molitura fu fissato in 10 centesimi a paniere. Per i lavoratori «di scasso e di pietra» il monte orario veniva fissato in 6 ore a £ 1,90 all’ora. Per i costruttori di muricce il corrispettivo per 7 ore giornaliere era di £ 14 per i maestri e di £ 12 per gli aiutanti. I ragazzi dai 12 ai 15 anni avevano diritto a metà paga, quelli dai 15 ai 18 anni ai due terzi del salario di un adulto. In caso di sospensione del lavoro per cause indipendenti dalla volontà dei lavoratori sarebbe stata corrisposta metà paga giornaliera. Per i lavori eseguiti fuori del territorio di Molfetta l’orario veniva ridotto di mezz’ora, mantenendo il salario vigente in città. Il vitto sarebbe dipeso dalle consuetudini locali, corrispondentemente ai disagi incontrati. Dell’osservanza delle nuove tariffe si sarebbe incaricata una commissione di proprietari e lavoratori, sotto la presidenza del pretore del mandamento. In caso di controversia era previsto l’intervento di un rappresentante della Federazione dei lavoratori di Terra di Bari. Dopo uno sciopero di parecchi giorni dei muratori e degli scalpellini e dopo lunghe trattative con la mediazione del commissario Palmieri, il 10 ottobre entrò in vigore un concordato della durata di sei mesi, valevole fino al 31 marzo 1921. Fu concesso un aumento del 30% sulla paga: il 20% dal 10 ottobre al 15 dicembre e il rimanente 10% dall’ultima data in poi. L’orario di lavoro giornaliero non doveva superare le otto ore, salvo a retribuire le ore eccedenti con un aumento del 40%. Il riposo era concesso dalle ore 12 alle 13 da novembre a febbraio; dalle 12 alle 13,30 in ottobre e marzo e dalle 12 alle 14 negli altri mesi. Per i lavori nei giorni festivi era consentita la libera contrattazione fra le parti. Il pagamento del salario sarebbe stato fatto prevalentemente il sabato sera. Per i gravi problemi della Terra di Bari Salvemini il 2 agosto 1920 tenne in Parlamento un importante intervento. Con esso denunciò alla Camera la faziosità della prefettura di Bari nei confronti degli avversari dei deputati ministeriali, la perfidia dei delegati e commissari di pubblica sicurezza a danno dei nemici dei candidati sostenuti dalla prefettura, la corruzione di molte amministrazioni locali e l’inettitudine delle burocrazie comunali. Questa dura denuncia fu preceduta da una dettagliata descrizione delle condizioni di denutrizione della popolazione della Terra di Bari per la carente assegnazione di grano da parte del Governo ad una zona già economicamente dissestata dalla crisi della fillossera. Conseguenza dell’ingiustizia distributiva tra le province italiane era la diversa razione quotidiana di pane. Ad esempio, al lavoratore agricolo emiliano e romagnolo toccavano in media 540 grammi di pane al giorno; all’operaio milanese 400 grammi; invece al contadino della Provincia di Bari soltanto 330 grammi giornalieri. Anche la pasta era distribuita in quantitativi ridotti, mentre lo zucchero e il riso sembravano addirittura un miraggio. A ciò si aggiungeva la sofisticazione, per cui spesso la farina era adulterata con veccia o altri surrogati di scarso valore nutritivo. Siccome poi il Consorzio granario non era in grado di evitare la sottrazione di frumento durante e dopo le operazioni di scarico dai piroscafi e dai vagoni ferroviari, esso inviava ai comuni della provincia un quantitativo di grano inferiore a quello annunciato. Così la situazione si aggravava, perché i Comuni a loro volta erano costretti a ridurre la razione agli abitanti. Al disordine annonario si aggiungeva pure il commercio clandestino di grano, venduto sottomano dalle 2 alle 3 lire al chilo. Infine Salvemini, preoccupato dai sintomi allarmanti di quanto era avvenuto in provincia di Bari per ciò che sarebbe potuto accadere in concomitanza delle vicine elezioni amministrative, denunciò in Parlamento il crescendo della violenza politica nell’Italia centro-settentrionale: «gli assalti all’Avanti! di Milano e di Roma, l’assalto alle sedi riunite di Trieste, i fatti di Lodi, provocati dagli arditi inviati da D’Annunzio, i fatti di Torino sono tutti identici alle dolorose storie dell’Italia meridionale. La formula è sempre la stessa: un partito assale l’altro a mano armata, e la forza pubblica lascia fare o interviene solamente quando gli assaliti si difendono, per arrestarli».