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Salvemini, Gobetti Albertini e il volume “Dal Patto di Londra alla Pace di Roma”
15 dicembre 2024

Nel 1924 Gaetano Salvemini meditava di pubblicare un libro sui risultati delle iniziative diplomatiche italiane per la partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. In fondo, il materiale era già pronto. Si trattava di recuperare qualche decina di articoli e due discorsi parlamentari del 1920 relativi ai problemi dell’Austria, alla questione adriatica e ai rapporti italo-slavi. Per completezza andavano messi in coda i testi in francese del patto d’amicizia italo-jugoslavo e dell’accordo per Fiume del gennaio 1924, ai quali poi sarebbe stato aggiunto il testo italiano del patto di collaborazione italo-cecoslovacco del luglio 1924. Gli articoli giornalistici erano apparsi tra il novembre 1914 e il giugno 1920 sia su periodici italiani, come Il Secolo e soprattutto L’Unità, in maniera preponderante, sia su periodici esteri, come La Serbie di Ginevra, The Quarterly Review di Londra e il Journal des Débats di Parigi. I diversi testi, assemblati come capitoli del libro, sarebbero stati introdotti da un’articolata prefazione ad hoc dello stesso Salvemini. Il titolo ipotizzato e alla fine mantenuto fu Dal Patto di Londra alla Pace di Roma, che ripropose 39 articoli, 2 interventi parlamentari e 2 documenti diplomatici. L’editore prescelto fu l’infaticabile intellettuale torinese Piero Gobetti, discepolo salveminiano e pugnace direttore della rivista settimanale di politica La Rivoluzione liberale, che intervenne anche nella scelta degli articoli di Salvemini. La stampa fu affidata alla Tipografia di Giuseppe Marchisio, ubicata a Torino in Corso Palestro, 8 bis, non lontano da Piazza Statuto. Fin dall’inizio la composizione tipografica risultò problematica e Salvemini non mancò di lamentarsene con Gobetti. Difatti, dopo le burrascose elezioni politiche del 6 aprile 1924, lo storico, in una lettera fiorentina del 23 aprile, piccato dai risultati dei preliminari di stampa, osservò: «Non ho ricevuto più bozze del volume. Occorrerebbe aspettare la stampa, e soprattutto occorrerebbe che la composizione fosse molto più accurata di quella delle prime bozze, che ti inviai corrette alcune settimane orsono. Se continuano a comporre in modo scellerato sarà una fatica improba il correggere. Spero che tu mi faccia mandare al più presto le seconde bozze (non ancora impaginate) del già corretto, e il seguito delle prime bozze. Inoltre ti prego di mandarmi il manoscritto della prefazione, e tutti gli articoli che hai creduto di sopprimere: vorrei avere sott’occhio ogni cosa». Il lavoro tipografico, però, nei mesi seguenti subì dei rallentamenti e, ad aggravare la situazione, intervennero in giugno il delitto Matteotti e il 5 settembre la violentissima aggressione subita dal coraggioso Gobetti da parte di una squadraccia fascista. Dopo poco più di tre mesi dalla missiva del 23 aprile Salvemini, a cui premeva mantenere il più largo controllo della pubblicazione, con una lettera del 13 dicembre da Firenze, tornò alla carica per riavviare il lavoro: «Caro Gobetti, abbi pazienza, ma finché non ho i fogli impaginati, io non ti mando la prefazione. Del volume, il responsabile sono io: posso passar sopra a qualche errore di secondo grado; ma ho il dovere di assicurarmi che non ci siano pagine fuori posto, sfarfalloni che capovolgono il testo ecc. Io non possiedo che il mio decoro scientifico e letterario, e debbo tutelarlo. Dunque aspetto. Se no, no». Frattanto la ripulsa degli intollerabili eccessi fascisti montava e quando Mussolini col duro discorso del 3 gennaio 1925 alla Camera inaugurò la fase palesemente dittatoriale del regime, dopo che il Circolo di Cultura di Firenze fu chiuso con un decreto prefettizio del 5 gennaio, dallo stesso mese cominciò a circolare il foglietto clandestino antifascista Non mollare, di cui lo storico fu magna pars, scrivendovi e raccogliendo fondi. Sempre nello stesso mese La Rivoluzione liberale subì il primo sequestro. Finalmente i fogli impaginati arrivarono, ma dopo che Salvemini ebbe inviata la prefazione al volume in cantiere, si verificò un ritardo nella spedizione delle nuove bozze. Per ottenere da Torino il nuovo materiale tipografico, lo storico da Firenze il 15 febbraio 1925 tornò a interpellare in merito Gobetti: «Quando mi mandi le bozze della prefazione e i fogli stampati del volume?». Questa volta l’invio fu molto più tempestivo e Salvemini, ricevuto quanto richiesto, il 18 febbraio seguente scrisse all’editore: «Caro Gobetti, oggi stesso ti rinvio le bozze corrette. Occorre che tu mi faccia rivedere l’impaginato, mandandomelo insieme con queste bozze in colonna. E occorre che tu mi mandi tre copie dell’impaginato. Ti prego vivamente di provvedere perché ciò avvenga. Rivisto l’impaginato – e non ci saranno più correzioni, altro che pel controllo tipografico – potrai stampare senz’altro. Ma mi raccomando per le tre copie! Una la rimanderò; le altre due mi serviranno per la traduzione inglese e cecoslovacca. Io guadagnerò qualche soldo, e le traduzioni faranno réclame al volume». Apportate le ultime correzioni, il libro fu pubblicato a Torino nel marzo del 1925 sotto l’egida di Piero Gobetti Editore con il titolo preventivato Dal Patto di Londra alla Pace di Roma e il sottotitolo Documenti della politica che non fu fatta. Era un volume con una introduzione di 64 facciate con numerazione romana, intitolata La diplomazia italiana nella Grande Guerra, seguita da un corpus di 360 pagine. Per ridurre il costo della stampa e delle singole copie, il libro non venne rilegato in tela, ma uscì in brossura. Era di colore beige col piatto anteriore a caratteri neri entro un profilo rettangolare rosso, recante al centro un logo ovale col motto di gusto alfieriano in greco ΤΙ ΜΟΙ ΣΥΝ ΔΟΥΛΟΙΣΙΝ (Cosa ho io a che fare con i servi?), disegnato da Felice Casorati e caratteristico delle edizioni gobettiane. Il libro fu messo in vendita al prezzo di 16 lire. La dedica di Salvemini era particolarmente significativa, indirizzata con gratitudine ai suoi giovani seguaci, incluso ovviamente Gobetti: «Ai nuovi giovani amici, che sono venuti a me in questi anni difficili, questo libro è, in segno di riconoscenza, dedicato». Il sottotitolo Documenti della politica che non fu fatta è assai eloquente, perché Salvemini, strenuo oppositore del patto di Londra, nel nuovo libro rimarcò le manchevolezze dell’azione diplomatica italiana. Rivalutando le infamate ideologie democratiche dei “rinunciatari” come Leonida Bissolati e lui stesso, delle quali Mussolini si era però servito per il patto italo-jugoslavo del 27 gennaio 1924, attribuendosi perfino il merito di aver risolto la questione fiumana, Salvemini si propose prima di tutto di provare il danno morale della politica del ministro degli esteri Giorgio Sidney Sonnino, che aveva «fatto credere al popolo italiano che fosse stato derubato della vittoria», quella vittoria che d’Annunzio proclamò «mutilata». Il mito della “vittoria mutilata”, esacerbando le delusioni postbelliche e sminuendo i sacrifici fatti dagli Italiani, aveva minacciato di condurre l’Italia allo sfacelo. Se la fiumana della disperazione nazionale era stata arginata contrapponendo ad essa gli antidoti dell’ottimismo e dell’equilibrio, lo si doveva, unitamente ad alcuni amici, a Salvemini, il quale aveva ripetuto in continuazione che la perdita della Dalmazia «non era una disgrazia, era una fortuna». Per pubblicizzare il libro, Salvemini si rivolse al generoso Luigi Albertini, editore del Corriere della Sera, con una lettera fiorentina del 1° aprile 1925, non senza un pizzico di autoironia: «Preg. mo Senatore, avrà ricevuto – spero – dal Gobetti il volume Dal Patto di Londra alla Pace di Roma. Le sarei grato se Ella ne facesse parlare sul “Corriere”: non per la mia… gloria, ma per aiutare Gobetti a riprendere le spese di quel libro, che non può avere un grande pubblico in un paese come il nostro». Per la recensione del volume salveminiano Albertini pensò al valente giornalista Mario Borsa, redattore di politica estera al Corriere della Sera e collaboratore della Rivoluzione liberale di Gobetti, ma si dolse profondamente della mancata menzione del considerevole apporto dato dal suo giornale e dai suoi redattori all’affermazione del cosiddetto “rinunciatarismo” contro i nazionalisti e contro Sonnino. Ne è viva testimonianza una lettera del 24 aprile indirizzata a Giovanni Malvezzi, amico di Salvemini, cofondatore con Umberto Zanotti Bianco dell’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno e attivo antifascista. In quella missiva si legge: «Caro Nane, ho letto la prefazione del volume di Salvemini, edito dal Gobetti, Dal patto di Londra alla pace di Roma. Egli svolge mirabilmente la cosiddetta tesi rinunciataria di cui Bissolati fu uno degli interpreti; ed a Bissolati Salvemini tributa tutto l’omaggio che gli è dovuto. Ma si guarda bene dal ricordare mai che le stesse idee di Bissolati erano comuni ad altre persone, le quali, per farle trionfare, si sono sacrificate non meno di Bissolati. In altre parole se la tesi di questi ha vinto, ha vinto per il potente concorso del Corriere e dei suoi uomini di cui Salvemini non fa alcuna menzione. Malgrado ciò egli ha mandato a me il volume perché il Corriere se ne occupi e il Corriere se ne occuperà con una recensione di Mario Borsa». Ricorrendo all’intermediazione di Malvezzi, Albertini intendeva appurare quale fosse l’autentico atteggiamento salveminiano nei suoi confronti. E lo dichiarò alla fine della lettera: «Non è il caso che tu legga questa mia a Salvemini. Vorrei solo sapere per curiosità da te come egli spiega la sua attitudine verso di noi, come fa a non rendersi conto che senza il Corriere della Sera le idee dell’on. Bissolati molto probabilmente sarebbero rimaste sul lastrico, e come concilia la cordialità che privatamente mi dimostra colla ostentata indifferenza per ciò che il Corriere ed io abbiamo fatto». Malvezzi riferì del malumore di Albertini a Zanotti Bianco e questi a sua volta con ogni probabilità dovette informarne il meridionalista Giustino Fortunato. Salvemini, venutolo a sapere «da tre parti», ne rimase turbato e volle scusarsi e giustificarsi con Albertini. Con una lettera fiorentina del 25 maggio 1925, prima di tutto ringraziò l’editore del Corriere per la partecipazione alle spese per la traduzione di una parte della Geschichte von Florenz di Robert Davidsohn (sotto cui forse si celava anche un contribuito finanziario per il Non mollare), poi elogiò il discorso tenuto da Albertini al Senato il 7 maggio contro la soppressione delle libertà statutarie e in particolare della libertà di stampa ope-rata da Mussolini, quindi affrontò ciò che gli stava più a cuore: la questione del proprio silenzio sull’opera svolta dal Corriere nello scontro tra bissolatiani e sonniniani, tra “rinunciatari” e nazionalisti dalmatomani. La riflessione sull’accaduto lo spinse a dichiarare: «ho voluto capire come mai ero incorso in quella lacuna, che mi umilia come storico, e soprattutto mi turba come galantuomo, perché mi fa apparire come un settario che voglia sequestrare per il suo solo gruppo il merito della campagna antisonniniana e neghi il merito e l’efficacia decisiva dell’opera altrui. […] Il “Corriere” prese posizione nel luglio 1917, e poi entrò nel 1918 nel folto della mischia con tutte le sue forze, e fu il fattore decisivo della battaglia. Ma questa parte della storia era estranea al mio spirito, mentre scrivevo la prefazione, e quindi non entrò nella prefazione». Salvemini non mancò di fare autocritica, aggiungendo: «In fondo [Mario] Missiroli aveva ragione quando diceva che io ho un’intelligenza a una sola dimensione. Nello sforzo di veder chiaro – questo è il mio tormento – impoverisco spesso il sistema delle mie idee: vedo chiaro, ma non vedo intero. Ora che Le ho fatto la mia confessione, spero che Ella non mi vorrà male della mia unica dimensione. Anzi so che non me ne vuol male. Ella me ne ha dato prova nella traduzione Davidsohn. E questo mi rende sempre più cara la Sua amicizia e la Sua generosità». Albertini magnanimamente accettò le giustificazioni di Salvemini e il 28 maggio da Milano rispose: «mi rallegro […] vivamente delle leali spiegazioni che mi dà circa quel silenzio che mi era riuscito doloroso, perché la campagna adriatica mi ha procurato tante amarezze da parte dei dissenzienti da farmi desiderare intensamente il riconoscimento pieno da parte dei consenzienti del contributo da noi portato all’intesa italo-jugoslava. […] vero è però che [ora] pochi osano sostenere il “Corriere” a viso aperto. Lei invece è tra coloro che più affannosamente combattono per la stessa causa: è un compagno di lotta impareggiabile. Ed allora si desidera che nessuna nube sorga fra compagni simili ad accrescere la melanconia e lo sconforto di quest’ora. Per cui le Sue parole mi hanno fatto bene e Le dico tutta la mia riconoscenza, accertandole che potrà sempre contare su di me per opere buone che voglia promuovere o favorire». Soffiavano tuttavia venti contrari e Salvemini, accusato di complicità nella redazione e diffusione del Non Mollare per la delazione di un tipografo del foglio clandestino, l’8 giugno 1925 verrà arrestato a Roma. L’11 novembre La Rivoluzione liberale, dopo una diffida del prefetto di Torino, cesserà le pubblicazioni. Poco dopo Albertini, continuando la sua opposizione al fascismo sul Corriere della Sera, il 29 novembre, per ordine di Mussolini, verrà estromesso dalla proprietà del giornale, mentre il fratello Alberto ne perderà la direzione. Il povero Gobetti, deciso a continuare il suo lavoro in esilio, il 6 febbraio 1926 partirà per Parigi, ma il suo fisico duramente provato sarà stroncato da una fulminante bronchite nella notte fra il 15 e il 16 febbraio. © Riproduzione riservata

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