Nuovo riconoscimento al registra Giulio Mastromauro per il film documentario “Bangarang”
Già vincitore del David di Donatello, ha ottenuto il Premio speciale della giuria alla Festa del Cinema di Roma
Nuovo prestigioso riconoscimento al registra Giulio Mastromauro di Molfetta con il film documentario “Bangarang”. Presentato in concorso alla Festa del Cinema di Roma nella sezione “Panorama Italia” di Alice nella Città, l’esordio al lungometraggio di Mastromauro, già vincitore di un David di Donatello con il cortometraggio “Inverno”, conquista uno dei premi più importanti del festival della Capitale, il Premio Speciale della Giuria. Un riconoscimento arrivato a nemmeno ventiquattro ore dalla proiezione in anteprima mondiale all’Auditorium Conciliazione, accolta da applausi a scena aperta da parte del pubblico. Consensi seguiti dall’apprezzamento anche della critica e della giuria del festival. Il documentario “Bangarang” di Giulio Mastromauro, è prodotto da Zen Movie (la società di distribuzione cinematografica dello stesso Mastromauro e della moglie Virginia Gherardini) con Nuovo Imaie, con il supporto di Apulia Film Commission e con la partecipazione di Dispàrte, ha ottenuto, infatti, il Premio speciale della giuria composta da Tarak Ben Ammar, Francesco Motta, Ivan Silvestrini, Yle Vianello, Alessandra De Tommasi e Riccardo Milani (Presidente onorario). Questa la motivazione del premio: «L’unico documentario in concorso merita un’attenzione e una menzione speciale per la capacità emotiva di aver colto le sfumature del vissuto dei bambini di Taranto, raccontate dalle loro stesse parole. A volte confuse, tendono a imitare gli atteggiamenti degli adulti e quindi vivono il caos, il “bangarang” del titolo, che il regista ha saputo raccogliere così bene. Giulio Mastromauro non lo ha trasformato in altro, non lo ha edulcorato né ha forzato la spontaneità dei giovanissimi interlocutori. Anzi ha saputo fare un passo indietro con grande incisività». Rumore, caos, disordine. Tutto condensato in una sola parola giamaicana dal suono buffo, “Bangarang”. Uno sguardo su Taranto, e su come la vedono i bambini; e su di loro, i figli di questa terra. Un doc sull’infanzia in una città industriale del Mezzogiorno d’Italia: non un film sui bambini e l’ex Ilva – ma, inevitabilmente, una pellicola che affronta anche questo delicatissimo tema. «È un premio totalmente inaspettato. Bangarang è un film libero e sono felice che la giuria abbia percepito l’amore, il coraggio e l’ostinazione con cui è stato realizzato questo film – commenta il regista, sceneggiatore e produttore Giulio Mastromauro – È un premio che sento di dover condividere con tutta la crew perché questo viaggio lo abbiamo fatto insieme. Dedico questo premio alla città di Taranto e ai suoi bambini». Il film uscirà nelle sale il prossimo anno. «L’infanzia è un momento della vita che ha sempre acceso in me curiosità e stupore – aggiunge Mastromauro –. L’infanzia è spensierata, giocosa, inconsapevole, ma anche arrogante e violenta. Durante dei sopralluoghi a Taranto per il mio prossimo film, sono rimasto incantato dai bambini di questa città, conosciuta principalmente per le tristi vicende legate all’acciaieria, la più grande in Europa, attiva dai primi anni Sessanta e teatro di uno dei più gravi disastri sanitari e ambientali della storia italiana ed europea. Ho sentito l’esigenza di raccontare questi bambini, ma non ho mai voluto speculare sulla tragedia. In “Bangarang” ho cercato di osservare e di ascoltare l’infanzia del luogo, con affetto profondo. Senza moralismo, in un modo autentico. Dando voce esclusiva – non ci sono adulti nel film – alle movenze, allo sguardo, alle emozioni degli esseri umani più piccoli. Li ho circondati di animali straordinari – delfini, cavalli, fenicotteri, cavallucci marini – che per certi versi riconducono al loro immaginario e che donano al film una visione a tratti quasi fiabesca. Ho scoperto che la Natura di quel luogo ha una forza disarmante, una vera necessità di autoconservarsi e di riconquistare i suoi ecosistemi disastrati per far splendere la propria bellezza e unicità. La forza dei bambini che abitano quello stesso territorio è la medesima, ed è stata per me una constatazione potente. Durante le settimane a Taranto, stando a stretto contatto con i bambini della città, ho scoperto la loro energia incontenibile, liberatoria e a tratti violenta. Non ho mai cercato un solo interprete o protagonista, una voce assoluta attraverso cui raccontare. Era la loro energia collettiva ad avermi catturato, l’anima di una generazione. Il tempo mi è stato amico nello sviluppo del film, che si è plasmato da solo. Tutto è nato dalla semplice osservazione. E spesso il mio stato d’animo ha vacillato. Ho provato delle emozioni e sensazioni costanti e contrastanti. Passavo da momenti di euforia a momenti di profonda inquietudine. Ogni scena, anche la più quotidiana, diventava per me metafora di qualcosa di più grande. Scoprivo tutto lentamente: le abitudini dei bambini, la loro amicizia, il legame con la città. Il contrastocontinuo tra quello che per loro è un vero parco giochi a cielo aperto e il pericolo costante che genera la vicinanza all’acciaieria. Attigua alle abitazioni, alle scuole. Quale che fosse il mio punto di osservazione, “Lei” c’era. È parte integrante di questo paesaggio urbano, come lo sono il mare e il cielo. Eppure loro sembrano esserne addirittura inconsapevoli. In me però qualcosa è cambiato quando, nel quartiere Tramontone, mi sono trovato difronte il gigantesco murales che raffigura il volto del piccolo Giorgio Di Ponzio, morto a 15 anni a causa di un sarcoma ai tessuti molli. Sono rimasto ad osservarlo per ore. Quel momento ha cambiato il mio rapporto con il film, e forse ha cambiato per sempre anche me. Quello che mi interessava era mettere in scena una sorta di zibaldone leopardiano, una mistura di pensieri sul rapporto tra la Natura e l’uomo nei primi anni di vita. Ma questo “incontro” con Giorgio ha dato al film una lettura più profonda. Non ho mai voluto realizzare un film politico, “Bangarang” non è un’inchiesta sul disastro ambientale e sociale, sulla tragedia umana. Ma una testimonianza e al tempo stesso un incoraggiamento, rivolto ai più piccoli, a restare rumorosi e resistenti rispetto alle difficoltà della vita. Di qui il titolo, che in dialetto giamaicano vuol dire tumulto, disordine».