Le opere di Salvatore Salvemini al museo diocesano
Alle radici della pittura
È stata inaugurata con successo al Museo Diocesano, il 22 novembre scorso, l’antologica Salvatore Salvemini. Alle radici della pittura. L’esposizione è stata curata da Gaetano Centrone e Ignazio Gadaleta; resterà accessibile al pubblico sino alla data del 26 gennaio 2025. Occasione è stata il centenario dalla nascita del pittore; a promuovere la mostra la Fondazione Museo Diocesano e la famiglia Salvemini. In particolare, l’iniziativa è stata fortemente voluta da Antonia Pisani, Antonietta Salvemini e Maddalena Salvemini. Essa ha goduto del patrocinio e sostegno della Diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo- Terlizzi e di quello dell’Amministrazione Comunale della Città di Molfetta. Ricorderemo ancora organizzazione, allestimento e servizi didattici di Fe.ArT soc. coop. e FAC Corniceria e la Segreteria organizzativa di Onofrio Grieco e Lucrezia Modugno. Il vernissage ha previsto gli interventi di don Michele Amorosini, direttore del Museo Diocesano; di Aldo Patruno, direttore Dipartimento Turismo, Economia della Cultura e Valorizzazione del Territorio della Regione Puglia; del sindaco Tommaso Minervini; dei curatori della mostra, i professori Gaetano Centrone e Ignazio Gadaleta. In fase di stampa è il catalogo della mostra per i tipi di Claudio Grenzi Editore. L’esposizione è un’occasione imperdibile per accostarsi a una figura che ha condotto una ricerca dagli esiti particolarmente stimolanti e felici e che ha rappresentato un punto di riferimento per numerosi artisti. Nato il 28 giugno 1925 a Molfetta, è stato pittore e docente di Disegno e storia dell’arte. Ha tenuto la sua prima personale a Napoli nel 1947 e il suo itinerario espressivo è proseguito sino alla morte, avvenuta il 28 dicembre 2006. Fu vicino tra gli anni Quaranta e Cinquanta ad Antonio Nuovo, Franco Poli, Cosmo Carabellese, con i quali s’interrogò sulle forme del realismo; importante ancora è rammentare come nel 1965, fosse, con Luigi Guerricchio, Enrico Landi, Ugo Martiradonna, Antonio Nuovo, Francesco Prelorenzo, Franco e Ivo Scaringi e Michele Vallarelli, tra i fondatori del gruppo Nuova Puglia, attivo contro la stagnazione e l’oleografia della Puglia, nel propugnare una pittura che si fa istanza critica e “recupero espressivo della nuova realtà meridionale”. La mostra documenta, con anche l’esempio di un autoritratto degli anni Quaranta, il percorso compiuto dall’artista sino alla data della morte. In realtà, nelle due sale a fungere da punto di partenza dell’itinerario del visitatore è un autoritratto del 1964, felicissimo nel suo innestarsi nella tradizione della fisiognomica, anche nei suoi risvolti carica-turali. Subito emerge il dono dell’ironia e dell’autoironia di Salvatore Salvemini, che, nell’olio su cartone telato, recupera uno degli elementi chiave della caricatura internazionale, lo zoomorfismo. L’attenzione alle forme animali rimane viva nelle altre opere degli anni Sessanta. In particolare colpisce la tempera su carta del 1962. Si affaccia il motivo dell’Agnello, che non poteva non essere vivo in un contesto, quale quello molfettese, profondamente legato alla riflessione sulla Settimana Santa. L’agnello emerge solo o in composizione still life e sempre lo connota, dato molto interessante, non il candore che gli è proprio, ma il cruore. In sostanza, è come se Salvemini lo vedesse, anche quando è apparentemente ancora intatto, nel suo destino di carne da macellazione. Dunque, sembra di assistere a un ciclico riaffermarsi del rituale antropologico del Pharmakos. Generalmente anche il corpo umano, nell’opera di Salvemini, è guardato o nella sua parcellizzazione, quasi in un’operazione di anticipato sezionamento (e penso ai Fotogrammi del 1969, olio e carboncino su tela), oppure nella sua ossatura; è, in una parola, ischeletrito, in una tensione che è, sì, espressionistica, ma che ci appare fortemente innervata da un tempus fugit e memento mori di ascendenza anche barocca. Molto interessante anche il lavoro, un olio su tela del 1961, sui Sassi di Matera. Lo sfollamento aveva già avuto inizio da dieci anni e di fatto la presenza umana non si affaccia, in quest’opera che reca impressi i segni della bellezza, ma anche del disfacimento in un’aura fantasmatica. Le opere successive mostrano una costante tendenza alla scarnificazione, all’allontanamento dal dato meramente fenomenico, per puntare a un realismo che è di essenza e ci pare molto somigliare a quel che rimane dopo l’epoché di husserliana memoria. Affiorano elementi che potremmo anche ricondurre a quelle immagini rivenienti dalla memoria collettiva che sono gli archetipi cari a Jung. Significativa è l’insistenza sull’elemento delle radici, e poi sulla già citata ossificazione della figura umana, accanto alla presenza del fattore totemico. Nelle rappresentazioni di Salvemini (si pensi alle Forme vegetali) sembra vibrare l’idea, cara alla nostra migliore tradizione, che realtà non sia solo ciò che si vede, che invece ne rappresenta meramente l’apparenza superficiale. Sebbene Salvemini paia insistere maggiormente sull’elemento vegetale, anche il fattore marino è presente nella sua produzione. Da un lato, gli scheletri strutturali che insistono nei suoi quadri ci hanno fatto pensare alla cantieristica navale cara al nostro paesaggio urbano; dall’altro, c’è, per esempio, un Maestrale sull’Adriatico del 1994, che, se sembra recuperare una memoria di Hokusai, da un lato ne mantiene il valore di tessitura, dall’altro pare ammiccare a motivi cari all’autore (dalla vegetalizzazione all’icona dell’agnello) in un campo di battaglia psichico prima ancora che meteorologico. Negli ultimi anni, la sparente figura umana torna a farsi vedere. Prima se ne ha traccia in uno dei quadri Senza titolo (è l’osservatore che dovrà colmare gli spazi bianchi), in cui l’uomo di cui non si scorge il volto affonda i piedi in un garbuglio di rottami. Poi c’è l’autoritratto del 2005, ultima opera in esposizione, per la quale, molto opportunamente, i curatori hanno segnalato l’accostabilità al benjaminiano angelo della storia, a sua volta ispirato a un dipinto di Paul Klee, l’Angelus Novus. Nella tesi benjaminiana emergeva l’idea (come poteva essere diversamente nei terribili anni delle Tesi di filosofia della storia, “Über den Begriff der Geschichte”?) della storia come “catastrofe” e cumulo di macerie. Nel caso del nostro pittore, sentendo forse vicina l’ora che scorpora, Salvemini recuperava la dimensione fisica, l’auscultazione del proprio corpo e della propria figura e lo faceva con l’eleganza e la potenza espressiva del segno che hanno contraddistinto l’intera sua parabola. © Riproduzione riservata