La muraglia di Molfetta oltre il privato: ripensare la vita in comune. Riflessioni su un problema di attualità
MOLFETTA - Le vicende relative alla muraglia di Molfetta (l’ordinanza del sindaco Tommaso Minervini che ne vieta l’accesso in determinate fasce orarie e i disordini successivi) chiamano in causa il rapporto fra pubblico e privato, libertà e sicurezza. È necessaria, insomma, una discussione seria sui presupposti che hanno portato a quella sentenza, che costringono a mettere in questione una serie di categorie cruciali.
Nel caso in questione, infatti, sulla muraglia grava una servitù pubblica di passaggio. Insomma, la muraglia può essere frequentata dalla collettività e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene (che devono attraversarlo per arrivare alla propria abitazione etc.).
Ora, la chiusura della muraglia è avvenuta a causa di problemi di sicurezza, legati ad esempio a ragazzi che facevano baldoria e che violavano la tranquillità dei residenti. Ma è chiaro che, se dovessimo chiudere tutti i luoghi in cui esistono disordini di questo genere, mezza Molfetta sarebbe chiusa. Certamente gli abusi di determinati soggetti costituiscono un fattore che limita la fruizione pubblica degli spazi. Di fronte a queste situazioni, la risposta non può essere quella di impedire gli abusi ribaltando la natura degli spazi, impedendo che siano vissuti dalla collettività. Piuttosto, la posta in gioco è come favorire la pubblicità dei luoghi, opponendosi ai comportamenti che minacciano la vita in comune. Perché se il privato necessità di tranquillità e sicurezza, anche il pubblico poggia su diritti e necessita di tutele.
Ora, nella modernità, c’è chi ha pensato che il privato fosse sinonimo di ordine, disciplina e produttività, e che il comune (i luoghi condivisi, la vita in comune, la cooperazione etc.) fosse sinonimo di disordine e improduttività. È folta la schiera di teorici che, da Locke in poi, ha sostenuto questa tesi, su cui ha poggiato il diritto di carattere proprietario che abbiamo ereditato dalla modernità. Prima la proprietà, poi tutto il resto. Invece anche gli spazi della vita in comune hanno bisogno di regole, e le relazioni sociali non sono improduttive. È grazie alla capacità di progettare collettivamente il futuro di una comunità che si sfugge agli egoismi privati, alle disuguaglianze, all’arbitrio del più forte, e che si scopre il piacere del confronto, della solidarietà, della condivisione.
Sottrarsi alla visione privatistica che ha guidato la chiusura della muraglia, allora, non è semplicemente compito dell’amministrazione. C’è la necessità, da parte della comunità, di pensare a come riappropriarsi dei luoghi collettivi, a come fare in modo che la muraglia, così come le piazze, le strade etc., siano i luoghi di tutti. Qualcuno avrà notato la mia indebita sovrapposizione di pubblico e comune, che hanno significati e storie diverse. È una forzatura fatta con consapevolezza, perché il pubblico, a mio parere, deve necessariamente immergersi nel collettivo, deve radicarsi nella capacità trasformativa delle soggettività, per sfuggire al destino a cui è stato condannato dalla modernità in poi, piantato nella testa del sovrano. Ma questa è un’altra storia, che merita un’altra discussione.
Questa amministrazione ha provato una strada, ha avuto almeno il coraggio di decidere. Certo favorire la partecipazione dei cittadini alla decisione circa un bene storico di tale importanza sarebbe stato auspicabile. Adesso, allora, tocca alla comunità tutta suggerire un altro modo di tutelare il pubblico senza limitarlo, anzi, facendone la dimensione fondamentale su cui poggiare la visione del futuro della comunità tutta intera. Per fare questo è necessaria una discussione collettiva, che includa istituzioni e soggetti sociali, partiti e cittadini. Non è il caso di aspettare.
© Riproduzione riservata
Autore: Giacomo Pisani