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La lezione: una passeggiata filosofica
Il prof. Giovanni Capurso
11 settembre 2025

 A breve si riapriranno i cancelli delle nostre scuole e sempre più il suo mondo sembra essere sopraffatto dalle incombenze burocratiche e dai ritmi dettati dall’efficienza, facendo perdere di vista ciò che dovrebbe essere centrale in essa: la lezione.

Negli ultimi anni, affievolitasi o scomparsa del tutto l’aura di autorità che circondava l’insegnante, non è rimasto che far leva sulla sua capacità di fascinazione. La perdita di ascendente, che derivava dalla tradizione, può essere così un problema ma anche un vantaggio o una sfida. Oggi l’insegnante deve guadagnarsi il rispetto o la stima dell’allievo.

A monte è il caso di far notare che il professore non è più l’unica fonte di sapere a cui può attingere l’allievo, eccetto i libri ovviamente. Siamo quotidianamente bombardati da una comunicazione superficiale, che non scava, che non interroga, che non va in profondità. E quindi si pone il problema inverso di come selezionare i contenuti.

Ecco perché l’insegnante deve sapersi riposizionare sia nel suo ruolo che nell’approccio in un mondo che cambia in fretta. Ciò costa fatica, significa entrare in una nuova mentalità didattica, umana e quindi relazionale.

Il professore oggi sente – io almeno sento - l’esigenza di rivedere non solo le strategie didattiche, ma di concepire la lezione in maniera antropologicamente diversa.

Vorrei cominciare da qui:

“Una lezione non è un tram che vi porta da un posto all’altro” diceva a suoi alunni Pavel Florenskij, “ma è una passeggiata con gli amici”.

E’ la passeggiata ad essere importante, oltre che la destinazione (concetto ripreso di recente anche da Gustavo Zagrebelsky). Questo mi pare un buon esempio di quanto vorrei dire: cercare di vedere chiaro passeggiando con i propri compagni d’avventura spirituale.

La lezione, invece, pur avendo necessariamente un senso (per non perdersi in una chiacchiera inconcludente), non dovrebbe procedere in linea retta, richiusa in una formula prestabilita a tavolino, ma, come una realtà vivente, sviluppare le sue potenzialità in corso d’opera. In tal senso non è fuori luogo definire la lezione ideale una sorta di colloquio, di conversazione tra persone spiritualmente prossime in cui c’è chi guida e chi sta al passo.

La lezione non è un tragitto su un tram che ti trascina avanti inesorabile su binari fissi e ti conduce alla meta per la via più breve, ma è una piacevole passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto d’arrivo, la meta, senza avere, tuttavia, l’ossessione, un’unica finalità, ovvero arrivare a destinazione.

Mi rendo ben conto che questo modo d’intendere la lezione fa a pugni con il bisogno di efficientismo che domina la cultura moderna, entrando a gamba tesa anche nella scuola. Ma forse è proprio per questo che essa dovrebbe ritornare ad essere una chioccia, un luogo protetto che va in controtendenza rispetto a un mondo sfiancante, che non concede spazi alla vita interiore: chi passeggia procede tranquillo senza affrettare il passo. La domanda o l’osservazione dell’allievo può essere un modo per allungare lo sguardo, soffermarsi su un dettaglio, fare un tragitto più largo del previsto, lasciarsi sorprendere lungo il percorso. E alla fine della lezione non deve destare scandalo se non si è raggiunta la meta.

Ma a questa legittima osservazione può essere fatto presente che il numero dei contenuti non è tutto. Se facciamo prevalere il principio della “testa ben fatta” di cui parla Edgar Morin o del più antico invito maieutico di Socrate, questo problema non è poi così insormontabile. L’educatore, e quindi anche l’insegnante, in fondo non è semplicemente colui che amministra le conoscenze e verifica i contenuti.

Chi educa sente l’inquietudine di una realtà imperfetta e prova a consegnare alle nuove generazioni il fuoco del cambiamento.

Giovanni Capurso

 

 

 

 

 

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