L’esposizione permanente di Raffaele Cappelluti al Torrione Passari
Dal mese di marzo è possibile, presso il Torrione Passari, edificio di grande valore storico e belvedere di Molfetta, ammirare il piccolo ma significativo corpus in esposizione permanente della donazione del pittore Raffaele Cappelluti. L’artista vanta nel suo percorso numerose partecipazioni a mostre in Italia e in Europa (Inghilterra, Francia, Spagna, Austria e via discorrendo). A Molfetta ricorderemo, tra gli altri, il bell’allestimento delle Trame leggere presso la Fondazione musicale Vincenzo Maria Valente nel maggio 2019. Come ha evidenziato, con la consueta acribia, Gaetano Mongelli, la sua è la “figurazione di chi indaga le ‘buone cose’ di uso quotidiano e i tanti ‘feticci’ capaci di dare un senso alle sue nature morte: icone di una memoria insopprimibile, velate da una malinconia ‘senza tristezza’”. Le tre opere dell’esposizione permanente presso il Torrione sono pienamente in armonia con il percorso espressivo di Cappelluti, che volge l’attenzione, isolandoli una volta dismessi dall’uomo, a quegli oggetti che altri, come Giuseppe Ar, contestualizzavano nel silenzio quasi metafisico per esempio della Cucina abbandonata o pittori quali Piero Slongo valorizzavano nella visione luminosa di stanze spalancate su paesaggi dorati dal sole. Lo spettro della dismissione e dell’abbandono è visibile già nei materiali utilizzati, spesso recuperati in spiaggia. Si tratta pertanto di elementi di cui l’uomo ha decretato l’inutilità e che l’artifex, in una sorta di pietas verso quanto la società ha trasformato in rifiuto, riqualifica per depositarvi il frutto della propria visione. Non dobbiamo dimenticare come l’Arte stessa sia spesso valutata dall’homo oeconomicus quale inutile orpello e sul destino delle opere artistiche nella società di massa i francofortesi hanno scritto pagine di grande lucidità. Così Cappelluti, per isolarvi i suoi oggetti e fiori, ridà dignità a materiali negletti come cornici dalle quali il tempo ha scrostato la vernice. La sua still life si concentra nella fattispecie su due icone a lui particolarmente care, la rosa e la tazzina sbreccata. La prima è da sempre emblema della beltà ma anche della sua fuggevolezza. La seconda, nella sua forma funzionale, compone solitamente quadri di vita della nostra quotidianità; riconosciuta frettolosamente quale parte integrante del vasellame quasi mai attrae la nostra attenzione. Mostrandone con precisione i decori non per una vocazione di descrittivismo fine a sé stessa, ma per rivelare la bellezza amorevolmente conferita a tali oggetti, il pittore sceglie di decontestualizzare le tazze e offrirle allo sguardo del fruitore. Accade così che a quest’ultimo, in una sensazione di straniamento, paia quasi di vederle per la prima volta, stagliate nel tempo ontologico dell’arte, rese vessillifere di un’armonia che travalica il mero senso dell’utilitas. Rose e tazze divengono dunque amuleti, emblemi della beltà che resiste all’abbandono. Melancoliche icone di una società vorace che tutto sciupa e consuma, ma anche testimonianza della fede in ciò che resiste, a dispetto di tutto. © Riproduzione riservata