Qualcuno li ha definiti “I nuovi eroi”, altri affermano che sono loro i veri fuoriclasse, altri ancora li chiama guerrieri perché sono in trincea in una guerra affrontata con armi che non garantisce la loro sicurezza ed il loro esercito: quello che dipende da loro per sopravvivere. Forse è arrivato il momento di prenderne atto, di assumere la consapevolezza della quotidianità di quell’eroismo che, in altri periodi è sottaciuto, reso invisibile o, peggio ancora, scontato, specie per chi opera nella Sanità ed ancora di più nella Sanità pugliese. Lei è una di loro, una di quelle che si alza al mattino presto o inizia a lavorare quando la sera tutti sono a casa, nel tepore dei propri affetti, al sicuro dagli schiaffi di un dolore, profondo ed interiore, che non possono trasmettere: quello di quando si sentono soli di fronte alla malattia, di quando questa vince, nonostante le lotte, le cure e spezza, inesorabilmente gioie e dolori, opponendo a preghiere, invocazioni e promesse, la parola MORTE. Lei è una di questi eroi. Ecco la sua testimonianza: «Il mio giorno numero 0 come Infermiera risale al lontano 10 settembre 1992 in Lombardia. Dopo aver superato numerose selezioni ero riuscita ad essere ammessa alla Scuola per Infermieri Professionali dell’Ospedale S. Antonio Abate di Gallarate, ai tempi fiore all’occhiello della Sanità lombarda. La mia vita professionale è iniziata allora. Difficilmente nella vita si riesce a fare ciò che realmente si desidera. Io quel giorno ci sono riuscita. Ancora oggi, dopo tanti anni, nonostante la vita, le delusioni, l’età, pur se disillusa, mi sento una privilegiata. Lo dico sempre a mia figlia, le racconto le mie giornate lavorative, condivido con lei il mio essere un’Infermiera. E lei è sempre fiera di me, lo è stata anche in tempi non sospetti, prima dello tsunami Coronavirus. Tutto quello che sono, tutto ciò che so di Nursing l’ho imparato in Lombardia. In quella splendida Regione, sempre nel mio cuore, ho assistito per la prima volta alla nascita di una vita, alla morte, alla sofferenza, alla rinascita. Ho stretto amicizie e legami indissolubili, ho sopportato turni di lavoro massacranti, guadagnato gratificazioni, raggiunto benessere, sono diventata donna. Eventi strani mi hanno portata diversi anni dopo, nel 2006, a tornare a casa, alla famiglia che aveva bisogno di me, a Molfetta, e al Policlinico di Bari. Il 1 agosto 2006 è cominciata la mia seconda vita: nuove divise, nuovi colleghi, nuove realtà, diversa utenza con diverse priorità assistenziali. È stato difficile ricominciare. Impossibile paragonare le due realtà. Ogni giorno rimpiangevo ciò che avevo lasciato. Passavo ore al telefono con i colleghi Lombardi, vedevo nero anche dove il nero non c’era e ignoravo il sole che la mia Terra cercava di donarmi. Dipingono noi pugliesi come disordinati, distratti, tanto quanto i Lombardi appaiono organizzati, metodici, ligi al dovere. Io ero il compromesso, quando decidevo di essere il compromesso, altrimenti ero la voce polemica fuori da un coro in cui non volevo assolutamente cantare. Nel frattempo, nel 2009, sono diventata mamma, e i miei pregiudizi hanno cominciato a rivedersi. Ho partorito in un piccolo ospedale di provincia, a Bisceglie, e lì, forse per la prima volta, ho cominciato a guardare la Sanità pugliese con occhi diversi. Mi piaceva raccontare di avere partorito come una Regina. Sì, usavo proprio queste parole per descrivere quell’esperienza. Ho imparato ad amare di nuovo il mio lavoro, ho imparato a convivere con le diversità e ad apprezzare il bello e buono che è la salute nella nostra Puglia. La saggezza dei miei 50 anni mi ha regalato questa consapevolezza. Poi è arrivato il Coronavirus che ha cambiato tutte le carte in tavola. La Lombardia, con la sua Sanità eccellente, funzionale, ben organizzata, ma ahimè forse troppo privatizzata, si è ritrovata impreparata a questa emergenza. La Puglia, forte di un ritardo dei contagi, con buone scelte e strategie politiche è riuscita a fronteggiare l’emergenza. In pochi giorni il Policlinico di Bari, il mio ospedale, è stato trasformato in una macchina da guerra al virus. Un intero padiglione è stato attrezzato per accogliere pazienti Covid. Il personale è stato destinato a nuove realtà. Non sono mancate le polemiche, le critiche, gli errori. A tutt’oggi manca materiale, manca in tutta Italia, forse in tutto il mondo!, ma la macchina è partita ed è in viaggio. Non è una fuoriserie, ma fa il suo sporco lavoro, salva vite. Qualche giorno fa ci siamo concessi il lusso di accogliere due pazienti provenienti da ospedali del Nord ormai saturi di posti letto. La nostra ospitalità è nota e non potevamo tirarci indietro proprio adesso. Io, nel mio piccolo, sto a osservare, spaventata e incredula ciò che accade. Sono sempre in contatto con i colleghi Lombardi, ci facciamo forza a vicenda, ci sosteniamo nelle difficoltà e ci siamo ripromessi una grande e bella rimpatriata, quando questo incubo sarà finito. Vado al lavoro, faccio la mamma, prego, piango facilmente, soprattutto a fine turno. Faccio, bene o male, ciò che fanno tutti gli Infermieri del mondo in questo momento storico... il mio bel lavoro». L. A. Li vediamo in Tv, sui social, in rete, non potremo mai riconoscerli perché hanno un’armatura di uno strato sottile e pochi centimetri di pelle scoperta che renderà impossibile riconoscere e ringraziarli. Quello che noi facciamo, è solo una goccia nell’Oceano, ma se non lo facessimo l’oceano avrebbe una goccia di meno. (Madre Teresa di Calcutta). © Riproduzione riservata