Gianni Antonio Palumbo: “poesia in cinque movimenti e due congedi”
Recensione della plaquette pubblicata su “Critica letteraria”
Nella giungla intricatissima delle innumeri raccolte poetiche italiane, si staglia una sfaccettata e dotta plaquette, che vola come aquila sulla pletora di sedicenti poeti dalla scialba scrittura. Si tratta della silloge Poesia in cinque movimenti e due congedi (Vitale Edizioni, Sanremo 2022), che raccoglie testi editi e inediti di Gianni Antonio Palumbo ed è strutturata come una sorta di partitura musicale (per sinfonia, sonata e via dicendo). Infatti ad aprire il libriccino è un “Preludio”, il poemetto “Cantico del controsamaritano”, che rinverdisce la memoria collettiva di tutte le vittime del mortifero odio umano, dall’Olocausto, con lo sterminio di ebrei, zingari, oppositori politici, omosessuali, testimoni di Geova, criminali e disabili, fino alle odierne tragedie del mare, che hanno inghiottito nei gorghi salati migliaia d’infelici migranti. Ed ecco che la mente corre inizialmente ai campi di sterminio di Auschwitz e Mauthausen, al campo di concentramento di Berger-Belsen, al campo di lavoro della fabbrica Buna di Monowitz e al campo di deportazione di Fossoli. Alla glaciale impassibilità di quanti esaltarono la “purezza” ariana e cantarono l’inno del Partito nazionalsocialista dei lavoratori di fronte «allo scempio dell’umano» o alla colpevole insensibilità di quanti praticarono il madamato con le fanciulle abissine, si contrappone l’indifferenza contemporanea dei cattivi samaritani, cioè degli occidentali, dinanzi ai dolorosi flussi migratori nel Mediterraneo: «Chiamatelo sepolco questo mare che si chiude / sulle vittime di noi controsamaritani. […] il naufragio di quegli umili / è la cancrena di quest’occidente marcio». Allora, per superare la «cancerosa insania» che sconvolse i cattivi samaritani, non resta che pregare Dio «che tutti voglia e possa assolvere». E il responso dell’Altissimo è racchiuso nel primo congedo: «Risuonò nel frastuono la voce di Dio. / Tacquero allora i faggi e le stelle. / Il verdetto scivolò a precipizio in una forra. / La sentenza oggi è nel respiro di un sasso». Subentra di rincalzo il “Primo movimento” intessuto di Variazioni selenitiche, col primo testo, “Sul ciglio della strada”, dedicato alla tratta delle schiave sessuali, davanti alle quali l’autore pietosamente osserva che ogni prostituta coatta «lungo la strada / dove il piacere / diventa dolore» non perde mai l’umanità nativa: «Un fiore resta tale / anche se calpestato». Seguono le poesie “Radio Talk”, drammatica storia del radiocronista ebreo americano Alan Berg, assassinato da membri del gruppo suprematista bianco “The Order”; la concisa “Distonia. Per Marja”; “Il richiamo del mare”, che mostra il poeta incantato dalla voce pelagica con «l’indolenza lieve / d’un angelo / per ignavia sbalzato via dal cielo» e quindi “A Proserpina”, col messaggio finale «che la notte è solo un velo. / Che ogni alba nuova è un nuovo amore. / Che la vita resta nei cortili». Il “Secondo movimento” s’intitola Il “Nido notturno” e si apre e si chiude con due deliziosi omaggi alla stessa poetica e ingenua creatura, “Alla mia amica Luce” e “Triumphus Aeternitatis”, titolo petrarchesco – il secondo – che la dice lunga sulla matrice umanistica della solida cultura dell’autore, la quale occhieggia qua e là nei versi con voci letterarie o specialistiche (ottundere, p. 14; malparlieri, p. 20; ciclotimie, p. 22; agminatim e obtùto, p. 25; Wurdalak e il regionalismo zinale, p. 26). Anche quando la regina dei fiori risplende nella beltà reale del boccio, non mancano declinazioni metaforiche per salvifiche implicazioni: «Siamo noi uomini, fuscelli al vento, / che bruciamo ai roghi della vanità. […] Ma la rosa discreta che sorride in penombra / è la sola salvezza che ci è data» (“Ad Anna”). E per il poeta sommerso da «litanie di studi e versi» la felicità potrebbe venire da un’auspicata “Visitazione”: «E forse io sarò felice. / Purché arrivi lei / a confondermi le carte / con bucaneve di dispetti». Poi pullula incoercibile l’affetto di padre per le sue amate bambine: «io pregherò / che anche il giorno amaro / ti offra una margherita da sfogliare / e una farfalla / per sognare praterie d’azzurro» (“A Lia”). E ancora: «Io ti dirò quali reami / di luce il sonno schiuda / che lame di smeraldo fulgano tra fiabe d’oro» (“Nenia decembrina (a Maddalena)”), dove si avvertono echi dannunziani veicolati dall’endecasillabo «Io ti dirò verso quali reami» della “Sera fiesolana” e dalla replicata coppia «schiude» e «favola» della “Pioggia nel pineto”. Il “Terzo movimento” ha per titolo Geistliche Lieder, con esplicito richiamo ai Canti spirituali di Novalis. Il punto di partenza è ancorato a un versetto dei salmi biblici (27, 8), che diviene il fulcro di un sincero afflato religioso ritmato dalle pause musicali degli iperbati: «Cercare il tuo volto / mentre affiorano le ombre. / “Il tuo volto, Signore, io cerco”. / E se mi figuro / che mi cammini accanto, / d’improvviso il cosmico vuoto / mi risucchia. / E sono solo. / E per ogni stilla di male / il demone m’assale / dell’incertezza. / E mi do pena di ieri / che non sarà domani / e non è oggi. / Di ogni istante che più non ritorna. / Dei tuoi sorrisi che il vento ha disperso. / Dei volti che svaniscono nel gorgo. / Del tuo volto, Signore, / che io cerco» (“Cercare il tuo volto”). Fa da contraltare a questa preghiera una “Invocazione” a una leonardesca “Vergine delle rocce”, testimone di un “reo tempo”, che va oltre l’accezione foscoliana per rispecchiare il malessere dell’età contemporanea di fronte ai tanti migranti morti in mare: «Vergine del lutto che non ci riguarda / perché il fratello maomettano non è / Gesù né in atto né in potenza / e il suo grido lo ruba il vento. […] Vergine delle rocce, oggi ti prego / per questa terra che muore nel frastuono, / per un’Italia urlante impietosa / che ha svenduto il suo candore al maestrale». La “Conclusione” della silloge è intitolata L’asfalto e la grazia, che include il secondo e ultimo congedo dell’opera. Il poemetto è scandito dal reiterato ritornello Rosa semper rosa est, etiamsi in stercore dormiat (Una rosa è sempre una rosa, anche se giace nello sterco), che si riallaccia al già ricordato inizio e al finale della poesia “Sul ciglio della strada” («anche calpestato / un fiore / resta tale»). All’incipit del poemetto («Chi mai sarà sommerso e chi salvato?») tengono dietro personaggi vari, come il guerriero della controra, della cui «rabbia / s’innamora l’asfalto, / che gli fiorisce ai piedi», o la vecchia, che «biascica in dialetto la sua vita», o un giovane tormentato dall’insonnia, o una ragazza innamorata di uno zingaro segretamente concupito dalla madre e dal padre, o il vecchio spogliato dai «guerriglieri della noia», oppure l’anziano e autoritario professore dallo sguardo «fottuto», o una giovane «sformata» dagli psicofarmaci e «volata giù / ma non con grazia», o ancora la Maddalena, che non coglie più «rosolacci all’argine», la Veronica, che «in zinale asciuga / sangue e lacrime» e l’Addolorata, che «saluta i suoi figli». Ma quando la notte discende coi «suoi stracci d’argento», il poeta prende definitivo congedo dai suoi lettori e annega «la nostalgia / nelle maglie di un’alba nuova». In conclusione, Poesia in cinque movi- menti e due congedi è una raccolta den- sa e polifonica, che mescola l’invettiva contro gli stermini, il razzismo, la xenofobia, lo schiavismo sessuale e il supre- matismo ariano a un delicato lirismo, a una intensa pietà umana, a una risentita partecipazione sociale e a un’effusa tene- rezza paterna, con forti venature di ansia religiosa.