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Salvemini fra Italia e Francia nel ’21
15 aprile 2021

Conclusa la debilitante esperienza parlamentare del 1919-21, Gaetano Salvemini si rifugiò nella famiglia, domiciliata in un bel palazzo di Piazza D’Azeglio 25 a Firenze, e nell’insegnamento universitario all’ateneo fiorentino, in cui tenne un corso su Le lotte fra Bianchi e Neri in Firenze nell’anno accademico 1920-21. Inoltre, dopo la chiusura dell’Unità alla fine del 1920, la sua attività giornalistica si ridusse drasticamente, tanto che nel 1921, scrisse articoli soltanto per il quotidiano socialista Il Lavoro di Genova, giusto per integrare un po’ le sue insufficienti entrate. Il giornale era diretto dall’on. Giuseppe Canepa, rieletto al Parlamento nel maggio del ’21 in una lista “Socialista autonoma” regionale, che prendeva le distanze sia dal Partito socialista riformista di Bissolati, sia soprattutto dal movimento fascista e dai “Blocchi nazionali”. Per rimettersi in salute, Salvemini aveva programmato delle cure termali in Toscana e un soggiorno a Parigi, come faceva sapere in una lettera del 12 luglio 1921 da Firenze all’amico Giuseppe Prezzolini: «Il 15 luglio vado a fare una cura a Chianciano: e ci resto 15 giorni. […] Poi, il 1° agosto, me ne vado in Francia». Sul suolo francese l’ex deputato doveva raggiungere la seconda moglie Fernande Dauriac, andata a trovare il figlio Jean avuto dal primo marito Julien Luchaire, storico e letterato, già direttore dell’Istituto francese di Firenze, col quale aveva procreato anche la figlia minore Marguerite, detta Ghita. Del temporaneo trasferimento della moglie da Firenze in Francia Salvemini aveva informato il discepolo e amico Giuseppe Donati in una missiva del 5 luglio precedente: «Fernande è a Parigi: è nonna. Giovannino ha preso moglie ed è già padre di una piccina, che dicono incantevole ». La bimba del ventenne Jean Luchaire e della diciottenne Françoise Besnard era nata quasi cinque mesi prima, l’11 febbraio 1921. Il ritratto della famigliola con la neonata Corinne è dipinto da Salvemini con affetto paterno e partecipazione un po’ malinconica, anche nel ricordo indelebile della sua prima moglie, in un lettera del 19 agosto 1921 inviata da Parigi alla giovane amica Elsa Dallolio, impegnata con Umberto Zanotti Bianco nell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno. Ne riporto un ampio stralcio: «La piccolina di Jean è di una bellezza, e vivacità e salute veramente incantevoli. E anche la piccola moglie è simpatica e bellina e buona. E fra loro due, che con la piccina non mettono insieme quarant’anni, sono così pieni di serenità, di coraggio, di buon senso, di buona volontà. Io vado da loro spesso, mi fa tanta tenerezza vederli che entrerebbero tutti e tre in una scatola di fiammiferi. E mi fanno tanta malinconia: avrebbero bisogno di bambole e di marionette, e debbono ingegnarsi a cucire insieme il primo e l’ultimo del mese. Jean ha tappezzata tutta la casetta con le sue mani, ed ha messo su un gingillino assai grazioso; fascia la piccina, e conduce la carrozzina per le strade. E si occupa di politica, naturalmente di sinistra, partecipa a riunioni, fa anche delle conferenze!!! La piccola moglie lo guarda con gli occhi spalancati; ma ho qualche sospetto che non sia senza preoccupazioni per questa, del resto molto calma e punto esaltata, azione politica. Ho detto che mi fanno malinconia. E forse, anzi quasi certamente, ho torto. Dopo tutto, alla loro età feci anche io altrettanto: presi moglie con 25 lire in tasca, e fui felice, pur dovendo vivere con 150 lire al mese. Ma tant’è: mi metto nei loro panni con la stanchezza dei miei prossimi 50 anni, e mi vien quasi voglia di piangere». Detto per inciso, Jean e Corinne Luchaire andranno incontro a un tragico destino. Entrambi saranno condannati per collaborazionismo coi nazisti. Jean sarà fucilato a Parigi nel febbraio del 1946 e Corinne, celebre attrice cinematografica, morirà a 28 anni di tisi nel gennaio del 1950. Le visite alla famigliola, le passeggiate nella metropoli francese e il clima parigino rinfrancarono molto Salvemini. In risposta a una cordiale cartolina ricevuta, il 5 settembre 1921 da Parigi l’ex deputato ne informava lo storico Ettore Rota, condirettore della Nuova Rivista Storica, che due anni prima vi aveva pubblicato un lusinghiero profilo del meridionalista. Ecco le parole di Salvemini: «Io sto qui a godermi queste vacanze, di cui mi sono gratificato per la prima volta da dieci anni. La città è bellissima; l’autunno è splendido; la salute è discreta, per quanto le pazzie fatte nel mezzo secolo scorso lo consentono. E non mi sono mai goduta la vita come ora. Mi resta purtroppo una certa incapacità al lavoro metodico, alla concentrazione, all’attenzione». Per contro, nella stessa lettera a Rota, spuntava anche il ricordo sgradevole dell’esperienza fatta alla Camera: «La vita parlamentare, salvo cataclismi imprevedibili, non mi afferrerà più. Ne ho conservato un ricordo di disgusto e di orrore. Mesi interi di comizi fatti per sei ore al giorno da oratori quasi tutti stupidi e alcuni bricconi, davanti a un pubblico di bruti. E fuori dalle ore di comizio, lo spasimo delle lettere e delle sollecitazioni: la cooperativa che ti vuol portare dal ministro o dal deputato influente a pitoccare lavori pubblici, e con cui devi lottare per ore e ore per far capire i motivi per cui non puoi, non vuoi, non devi andare a disonorarti e loro non capiscono; il professore che domanda la supplenza o il trasferimento, e a cui devi rispondere che non ti occupi di questi affari; la vedova che aspetta da due, tre anni la pensione, e alla quale non puoi rendere giustizia: una lima sorda che funzionava tre ore al giorno in media. Eppoi le gite laggiù ad andare urlando per le piazze. No, perdio, non mi riprendono più. Non so come non sono crepato. Ci ho fatto una malattia di due mesi! E mi sarei per lo meno idiotizzato, se Giolitti non avesse sciolto la Camera: salutem ex inimicis nostris!». Dopo aver citato il versetto «salvezza dai nemici nostri» del Cantico di Zaccaria riportato nel Vangelo di Luca, Salvemini spiegava poi a Rota che la stagione dell’Unità poteva ritenersi per lui ormai conclusa: «Anche l’idea di riprendere “L’Unità” difficilmente mi ritornerà in testa. Dieci anni di lavoro continuo mi hanno del tutto spremuto. Debbo rifare la mia coltura da cima a fondo. E mi pare sia stato lavoro perduto. Il suffragio universale e il trattato di Rapallo, certo, non si sarebbero fatti senza di me. Ma sono nati gobbi. Eppoi quel che mi importava, non era ottenere resultati concreti. Era creare in Italia qualche migliaio di uomini politici intelligenti. Questo è mancato. Quel gruppo di un paio di migliaia di amici, che si erano raccolti intorno all’ “Unità”, non sono, in fondo, che dei contemplativi. Meglio avrei fatto se avessi impiegato dieci anni della mia vita a fare un libro di testo per le scuole. Forse, per questa via, avrei avuto una influenza maggiore». Nonostante quest’autocritica piuttosto severa, Salvemini viveva giorni tranquilli. Il 26 settembre era ancora con Fernande a Parigi, dove lo raggiunse una missiva dell’amico Niccolò Rodolico, già collaboratore dell’Unità e docente di storia moderna a Messina, che tra l’altro era stato incaricato dal meridionalista, nella sua momentanea assenza dall’Italia, di provvedere all’invio della quota mensile di 150 lire ad Annetta Salvemini, sorella nubile di Gaetano, priva di mezzi finanziari. Ecco l’esordio di quella lettera: «Carissimo Rodolico, grazie infinite del disturbo che ti sei preso per farmi conoscere le mie ricchezze. E grazie, anche a nome di mia moglie, che ti saluta tanto, della idea di mandarmi le duemila lire, che mi occorrono, salvo a rimborsarti quando il regio governo lo vorrà. Ti pregherei di mandare anche a mia sorella (Anna Salvemini, Castello sopra Lecco, prov. di Como) le solite 150 lire mensili elevate a 175. E grazie di nuovo della tua buona amicizia». Salvemini passava quindi a descrivere nella missiva la situazione postbellica della Francia, preoccupata per le mosse future della Germania. Poi, se non mancava di accennare alla politica interna nazionale: «gl’italiani sono alla mercé di Mussolini e di Federzoni», cioè dei fascisti e dei nazionalisti, preferiva piuttosto dilungarsi con un’impietosa critica sulla politica estera dell’Italia, affidata da Ivanoe Bonomi all’ambasciatore Pietro Tomasi della Torretta, non a caso gradito ai nazionalisti e ai fascisti: «la chiave del problema è in mano a noi italiani: che potremmo farci pagare dalla Francia una diversa e più intelligente politica. Ma non siamo capaci di far politica intelligente, noi. Siamo troppo stupidi. Voilà tout! Ora siamo ai piedi dell’Inghilterra. E i nostri giornali nascondono che la Francia ci ha lasciato piena libertà di azione in Albania, e che l’Inghilterra non accetta per l’Albania più neanche il trattato di Londra. Che politica vuoi che faccia un paese ignorante come il nostro, e ingannato dai giornali?». Il periodo passato a Parigi fu per Salvemini un vero toccasana, nonostante il disgusto per la politica italiana. Infatti il 7 novembre 1921 da Firenze poteva scrivere a Elsa Dallolio: «Io mi sono ben riposato nei mesi scorsi: e di salute fisica sto oramai benissimo. Anche Fernanda benino. La politica mi dà sempre la nausea». A produrre tale «nausea» in Salvemini, mentre lo stato liberale agonizzava, vi erano stati i principali fatti intercorsi a cavallo della sua trasferta parigina: i cruenti scontri di Sarzana (21 luglio); la firma dell’effimero patto di pacificazione tra fascisti e socialisti a Roma (2 agosto); le misure di Bonomi contro l’organizzazione degli Arditi del popolo (13-17 agosto); il Congresso regionale dei Fasci a Bologna, che aveva respinto il patto di pacificazione (16 agosto); l’annuncio delle dimissioni di Mussolini dalla commissione esecutiva dei Fasci (18 agosto), in segno di protesta contro le decisioni del Congresso di Bologna; il rifiuto di d’Annunzio di mettersi alla guida del fascismo dopo l’ambasciata recata a Gardone da Dino Grandi e Italo Balbo, capi dello squadrismo agrario padano contrario al patto di pacificazione; il respingimento delle dimissioni di Mussolini nel consiglio nazionale fascista di Firenze (26-27 agosto) e l’imboscata mortale al deputato socialista Giuseppe Di Vagno a Mola di Bari da parte di fascisti conversanesi (25 settembre). Da lì a poco nel III Congresso fascista a Roma (7- 11 novembre 1921) il movimento dei Fasci si sarebbe trasformato in Partito Nazionale Fascista. Ma la scossa che avrebbe riportato Salvemini alla politica attiva era ancora di là da venire. © Riproduzione riservata

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