Il porto delle golette (III parte)
I nostri velieri dimenticati
e adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino, ovunque spingano la barca (Edgar Lee Masters) Inizio a scrivere questo mio articolo con le impressioni penose della motosega del neo presidente argentino Javier Milaj, e della bomba atomica che il ministro israeliano Amichai Eliahu vorrebbe sganciare su Gaza per “risolvere” il problema palestinese. È del tutto evidente che la politica internazionale sia ormai assimilabile ad un immenso manicomio criminale, ma temo che la vera tragedia consista nel numero di coloro che hanno votato questi due pazzi. Non mi stupirebbe se a questi signori venisse assegnato ex aequo il premio Nobel per la Pace. E del resto, nel 1973 lo stesso premio non fu assegnato a mister Henry Kissinger, già responsabile della politica estera americana, orditore di trame eversive fasciste in America Latina, con relativi colpi di stato e massacri e non fu costui che nel 1974 disse ad Aldo Moro che l’avrebbe pagata cara, se avesse proseguito nella sua politica di coinvolgimento al governo del Partito Comunista? (Testimonianza resa il 1 agosto 1980 dalla moglie di Moro alla Commissione Parlamentare d’ Inchiesta). I lettori perdoneranno l’esordio estrinseco all’argomento dell’articolo. Veniamo ai nostri vecchi velieri e parliamo dei brigantini a palo, armati con trinchetto e maestro a vele quadre, mezzana a randa, più un certo numero di stralli e di fiocchi. Intorno alla metà dell’Ottocento, le rotte atlantiche richiedono navi nuove, più affidabili e di stazza maggiore dei vecchi brigantini a due alberi di 200 o 300 tonnellate, perché i mercati delle due Americhe impongono carichi di portata maggiore. Occorrono battelli che oltrepassino le 500 tonnellate e che possano contare su di una superficie velica maggiore, distribuita su tre alberi. Nasce così il brigantino a palo (“bark” in inglese), che – almeno fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale – avrà una diffusione straor-dinaria e sarà adibito ai più svariati traffici di lungo corso sulle più importanti rotte transatlantiche e orientali. Era il famoso “mulo dei sette mari”. Al tempo della sua massima diffusione, il bark aveva una portata dalle 600 alle 2000 tonnellate, ed una stazza dalle 1000 alle 1400. Discretamente veloce e manovrabile, reggeva il vento mantenendo la stabilità, anche grazie alla randa della mezzana che tagliava le raffiche da poppa ed aiutava la bolina. Infine era più economico dei tre alberi a vele quadre perché le manovre della vela aurica richiedono meno uomini. Il brigantino a palo ebbe anche l’onore di comparire in alcuni eventi storici e letterari. Il 25 agosto 1778 l’esploratore inglese James Cook salpava da Plymuth al comando di un veliero di questo tipo per il primo dei suoi tre viaggi nei mari del Sud, che doveva concludersi il 12 Giugno 1771. Il suo bark si chiamava “Endeavour” (sforzo). Nell’ estate del 1888 Joseph Conrad, il grande scrittore anglo-polacco, è a Bangkok. Deve assumere il comando del “Otago”, uno splendido brigantino a palo. Un grave incidente a bordo gli causa un trauma celebrale i cui esiti lo tormenteranno per anni. L’ultimo capitano dell’ “Otago” era morto vittima di una febbre misteriosa che gli aveva sconvolto la mente: era spirato nella sua cabina dopo aver suonato per molte ore il violino, come faceva da mesi, disinteressandosi della nave ed esasperando l’equipaggio. Nel 1917, Conrad trasfuse queste storie ed atmosfere nel suo capolavoro La linea d’ombra. Non ho finora trovato immagini di questi velieri ormeggiati nel porto di Molfetta. Può essere che la capienza delle loro stive fosse maggiore rispetto alle richieste del movimento merci del nostro porto: ma questa è soltanto una ipotesi. Molti anni fa, parlando con alcuni vecchi marinai molfettesi, venni a sapere che almeno tre di loro avevano navigato a bordo di brigantini a palo, sulle rotte del Sud America. In genere erano soddisfatti della nave, e questo può essere frutto della gioventù che colora di rosa tutti i ricordi, ma tutti concordavano nel ricordare che non bisognava caricarli troppo, perché in quel caso le vele tendevano a non rispondere adeguatamente al vento e al timone. Uno di quei naviganti si chiamava Nicola Pansini ed era il nonno materno di mia moglie. Dotato di buona manualità, aveva confezionato un modellino di barco chiamandolo “Gina”, come sua figlia. Eccolo in fotografia. A me sembra di buona fattura, sia nella velatura che nelle manovre fisse e in quelle correnti. A dritta della poppa si può vedere un piccolo brigantino goletta. Come seconda immagine, propongo il varo di una nave goletta sullo scalo di alaggio di Molfetta. In fondo a destra si notano, attraccati, un veliero dello stesso tipo, e, alla fonda, ed ancora più a destra, una goletta. Infine ecco la piccola goletta della Scuola Professional Marittima di Molfetta, sorta nel 1919. I marinaretti posano fieri, accompagnati dal Capitano Corrado Altomare. © Riproduzione riservata